Verso la fine dei petroStati: l’urgente necessità di ridurre la dipendenza dal petrolio per la transizione energetica
Nei prossimi 20 anni le entrate governative dei petroStati dovrebbero diminuire di 9 trilioni di dollari
[12 Febbraio 2021]
Quello che Matteo Renzi nella sua spericolata intervista al principe ereditario Moḥammad bin Salmān Āl Saʿūd ha presentato come il rinascimento saudita, sarebbe in realtà la necessaria gestione di un repentino declino, almeno a leggere le anticipazioni del nuovo rapporto “Beyond Petrostates: The burning need to cut oil dependence in the energy transition” di Carbon Tracker e OECD Development Centre (che verrà presentato ufficialmente il 24 febbraio), dal quale emerge che «Nel passaggio a un mondo low-carbon nei prossimi due decenni. i Paesi che dipendono dai combustibili fossili potrebbero vedere un calo del 51% delle entrate governative di petrolio e gas».
A Carbon Tracker spiegano che «In questo rapporto, ci concentriamo sui 40 Paesi con la maggiore dipendenza fiscale dalle entrate del petrolio e del gas: i petroStati. Questi sono i Paesi più dipendenti dal petrolio e dal gas (in percentuale del PIL) e si trovano prevalentemente in Medio Oriente, Africa settentrionale e occidentale e Sud America».
Si tratta del cambiamento fondamenta che in molti – a cominciare da Dobald Trump e Vladimir Putin e da Matteo Salvini e Giorgia Meloni in Italia – ritenevano irrealizzabile e che invece sta spingendo l’economia globale inizia a decarbonizzarsi. Il rapporto evidenzia che «Con l’aumento del ritmo e dell’inevitabilità della transizione energetica, le popolazioni che dipendono fortemente dalla produzione di combustibili fossili devono affrontare entrate governative inferiori e perdite di posti di lavoro».
Se si riveleranno giuste le aspettative e le previsioni energetiche, con uno scenario low-carbon, nei prossimi 20 anni le entrate governative dei petroStati dovrebbero diminuire di 9 trilioni di dollari e il rapporto avverte che «La maggior parte di questa diminuzione è determinata da prezzi più bassi, piuttosto che da volumi inferiori». Insomma, gas e petrolio per reggere la concorrenza delle energie rinnovabili sempre più economiche e ambite, dovranno tenere bassi i prezzi. Sembrano lontanissimi, ormai preistorici, i tempi in cui le monarchie assolute del mondo potevano costringerci all’austerity e alle domeniche a piedi semplicemente chiudendo i rubinetti degli oleodotti e bloccando in porto le petroliere.
I budget fiscali variano in base alla vulnerabilità. Ora l’incubo che hanno di fronte i petroStati è quello del Venezuela, certamente in ginocchio per il boicottaggio Usa e per scelte politiche azzardate, ma anche per aver affidato il successo della rivoluzione socialista chavista a un’economia drogata dal petrolio. Un’illusione che è crollata insieme ai prezzi del greggio.
Carbon Tracker fa notare che i bilanci fiscali di questi Paesi si basano attualmente in gran parte sulle entrate dei combustibili fossili e per questo l’analisi si concentra sulla quantificazione del potenziale deficit in uno scenario low-carbon rispetto ai livelli di entrate petrolifere nell’ultimo decennio.
»La combinazione della dipendenza con la percentuale del deficit potenziale medio di petrolio e gas nello scenario low-carbon – si legge nello studio – ci consente di raggruppare i petroStati in base alla vulnerabilità basandosi sulla diminuzione percentuale delle entrate governative complessive».
Nei 19 petrostati più vulnerabili (livello 4 e 5) al nuovo scenario energetico/economico vivono 400 milioni di persone e 10 di questi paesi su 19 sono attualmente classificati come “low” nell’ Human Development Index (HDI) dell’Onu. I più a rischio sono i “petroStati emergenti”, come Ghana, Uganda e Guyana, che puntavano molto sulle loro risorse petrolifere di recente scoperta e che ora si trovano a dover fare i conti con la perdita di entrate che avevano previsto per i prossimi anni.
Come spiega Euractiv, la metà delle persone che verranno colpite dal crollo dell’economia fossile vive in Nigeria, dove un calo del 70% delle entrate petrolifere ridurrebbe le entrate totali del governo di un terzo. L’Angola, dove vivono 33 milioni di persone, potrebbe perdere oltre il 40% delle proprie entrate. Per altri 12 Paesi, tra cui l’Arabia Saudita e l’Algeria la perdita prevista è compresa nell’intervallo tra il 20% e il 40%. Anche molti dei più grandi produttori di petrolio, gas e prodotti petroliferi del mondo, compresi Usa, il Regno Unito, Paesi Bassi, Cina, India e Brasile, dovranno affrontare importanti cali di entrate, ma le loro economie non dipendono dalle esportazioni di petrolio e di gas e alcuni di questi Paesi, come gli Usa di Joe Biden e il Regno Unito di Boris Johnson puntano ad attuare rapidamente politiche riconversione energetica. E secondo uno dei due autori del rapporto, Mike Coffin, fanno più che bene: «E’ nell’interesse di tutte le nazioni minimizzare l’aumento della temperatura globale e questo significa ridurre rapidamente il nostro uso di combustibili fossili. Ma molti Paesi dipendono pesantemente dalle entrate del petrolio, il momento di agire per riequilibrare le loro economie è ora. Se si aspetta che la domanda scenda, sarà troppo tardi». L’atro autore, Andrew Grant, aggiunge: «Capire la portata della sfida e quali nazioni sono più vulnerabili aiuterà i politici a concentrare i loro sforzi. Ammortizzare l’atterraggio di centinaia di milioni di persone darà risultati migliori sia per il clima che per lo sviluppo umano».
Una questione della quale si è occupato all’inizio del mese anche il rapporto “The geopolitics of the European Green Deal”, pubblicato dall’European Council on Foreign Relations e dal think thak Bruegel, che analizza sia gli effetti delle iniziative attuate per esportare la politica climatica Ue quanto quelli collaterali non voluti ed esaminano anche come altri Paesi, come Usa, Cina, Russia, Algeria o Arabia Saudita potrebbero interpretare e reagire all’European Green Deal. Secondo ECFR e Bruegel, «Il Green Deal europeo non trasformerà solo l’economia, ma avrà anche profonde ripercussioni geopolitiche. Avrà un impatto geopolitico sull’equilibrio energetico europeo e sui mercati globali, sui Paesi produttori di gas e petrolio nel Vicinato europeo, sulla sicurezza energetica europea e sull’andamento del commercio mondiale, in particolare attraverso il meccanismo di aggiustamento di carbonio alla frontiera. L’Ue dovrebbe prepararsi a contribuire alla gestione degli aspetti geopolitici del Green Deal europeo. In questo contesto, le relazioni con importanti Paesi del Vicinato come Russia e Algeria, e con gli attori globali come Stati Uniti, Cina e Arabia Saudita, sono assolutamente rilevanti».
In uno scenario del genere, basare la pianificazione economica e delle entrate fiscali sulle previsioni dell’industria petrolifera e dell’Organization of the Petroleum Exporting Countries (OPEC) che prevedono un aumento della domanda di petrolio fino al 2040 è chiaramente un rischio che non tiene nemmeno conto di quanto prevede l’Accordo di Parigi: ridurre l’utilizzi o e l’estrazione di combustibili fossili. Come fa notare Euractiv «I petrostati ridurranno al minimo le perdite se ci sarà una riduzione graduale della produzione. Se invece cercano di monetizzare le loro riserve esistenti finché possono, spiega il rapporto, è probabile che l’eccesso di offerta distrugga il valore per tutti, con un calo dei prezzi che supera rapidamente il beneficio dell’aumento della produzione».
A Carbon Trackr concludono: «Le popolazioni delle economie che dipendono fortemente dalla produzione di combustibili fossili sono forse l’esempio più ovvio del modo in cui la transizione avrà anche alcuni aspetti negativi, ad esempio, minori entrate del governo e perdita di posti di lavoro. Saranno necessarie politiche decisive e lungimiranti per prevenire e mitigare questi impatti, sia da parte dei responsabili politici interni che della comunità internazionale. Ci auguriamo che la nostra analisi fornisca una base di dati utili e una fresca iniezione di slancio nello sviluppo del percorso di decarbonizzazione che può essere solo per tutti».