È la mancanza di lavoro, non il fanatismo religioso, il motore dell’estremismo violento nell’Africa sub-sahariana

UNDP: la speranza di un lavoro eclissa l'ideologia religiosa come causa del reclutamento in gruppi estremisti violenti

[7 Febbraio 2023]

I risultati del nuovo rapporto “Journey to Extremism in Africa: Pathways to Recruitment and Disengagement” dell’United Nations Development Programme (UNDP) mettono radicalmente in dubbio le ipotesi tradizionali su quel che spinge le persone ad aderire alle milizie dell’estremismo violento ed evidenziano «L’urgente necessità di abbandonare le risposte guidate dalla sicurezza verso approcci basati sullo sviluppo  e incentrati sulla prevenzione».

L’UNDP sottolinea che «La speranza di trovare lavoro è il fattore principale che spinge le persone a unirsi a gruppi estremisti violenti in rapida crescita nell’Africa subsahariana. Tra quasi 2.200 intervistati, un quarto delle reclute volontarie ha citato le opportunità di lavoro come motivo principale per aderire, mentre il 40% ha dichiarato di aver avuto urgente bisogno di mezzi di sussistenza al momento del reclutamento». Si tratta di un aumento del 92% rispetto ai risultati del già rivoluzionario studio “Journey to Extremism in Africa: Drivers, Incentives, and the Tipping Point for Recruitment” pubblicato dall’UNDP nel 2017 e un dato drammatico che fa giustizia di tutte le chiacchiere sullo sviluppo fatte dall’Europa, dall’Italia e dagli altri Paesi occidentali.

Il nuovo rapporto tratto da interviste con quasi 2.200 persone in Burkina Faso, Camerun, Ciad, Mali, Niger, Nigeria, Somalia e Sudan. Più di 1.000 intervistati sono ex membri di gruppi estremisti violenti, reclute volontarie e forzate. E, nonostante la convinzione e la percezione di politici e media occidentali sia spesso quella di una popolazione che non vuole progredire perché legata al fanatismo religioso (con la destra che pensa che quel fanatismo lo si voglia esportare attraverso i profughi e i migranti), l’UNDP fa notare che «La religione è stata la terza ragione per l’adesione, citata dal 17% – una diminuzione del 57% rispetto ai risultati del 2017, con la maggioranza delle reclute che ammette di avere una conoscenza limitata dei testi religiosi».

E dal rapporto emerge la responsabilità di regimi che spesso finanziamo, armiamo, appoggiamo politicamente o dei quali semplicemente – come in Libia – accettiamo la corruzione, la ferocia e gli abusi: «Quasi la metà degli intervistati ha citato uno specifico evento scatenante che li ha spinti a unirsi a gruppi estremisti violenti, con un sorprendente 71% che indica come “il punto di svolta” la violazione dei diritti umani, spesso perpetrata dalle forze di sicurezza dello Stato».

E’ quando rispediamo un profugo verso la Libia o in un altro Paese dittatoriale o fantasma che cominciamo a creare un estremista, un disperato che da vittima può trasformarsi in carnefice, in un mercenario che fa della morte e dei soprusi che esso stesso ha patito, un lavoro per sopravvivere..

L’amministratore dell’UNDP Achim Steiner  ha commentato: «L’Africa sub-sahariana è diventata il nuovo epicentro globale dell’estremismo violento con il 48% delle morti per terrorismo globale nel 2021. Questa ondata non solo ha un impatto negativo sulle vite, sulla sicurezza e sulla pace, ma minaccia anche di invertire per le generazioni a venire i progressi dello sviluppo conquistati a fatica. Le risposte antiterrorismo guidate dalla sicurezza sono spesso costose e poco efficaci, ma gli investimenti in approcci preventivi all’estremismo violento sono tristemente inadeguati. Per affrontare le cause profonde dell’estremismo violento, deve essere rinvigorito il contratto sociale tra Stati e cittadini».

Il rapporto, che fa  parte di una serie di tre rapporti sulla prevenzione dell’estremismo violento. esplora i percorsi per uscire dall’estremismo violento, identificando i fattori che spingono le persone a far parte di milizie e gruppi armati oppure ad uscirne. Gli intervistati hanno citato più spesso come motivi principali per l’abbandono delle milizie le aspettative non soddisfatte, in particolare quelle finanziarie e la mancanza di fiducia nella leadership del gruppo estremista. Inoltre, l’UNDP presenta dati di genere per comprendere l’estremismo violento dal punto di vista delle donne.

Nirina Kiplagat, peacebuilding adviso per l’africa e responsabile UNDP per la prevenzione dell’estremismo violento in Africa, fa notare che «La ricerca dimostra che coloro che decidono di svincolarsi dall’estremismo violento hanno meno probabilità di ricongiungersi e reclutare altri. Ecco perché è così importante investire in incentivi che consentano il disimpegno. Le comunità locali svolgono un ruolo fondamentale nel sostenere percorsi sostenibili per uscire dall’estremismo violento, insieme ai programmi di amnistia dei governi nazionali».

Per contrastare e prevenire l’estremismo violento, il rapporto raccomanda: maggiori investimenti nei servizi di base, compreso il benessere dei bambini; formazione scolastica; mezzi di sussistenza di qualità; investire nei giovani uomini e donne. Richiede anche un aumento delle opportunità di uscita dai gruppi armati e investimenti nella riabilitazione e nei servizi di reintegrazione basati sulla comunità.

Steiner conclude: «Si sta creando un mix tossico di povertà, indigenza e mancanza di opportunità, con così tanti che citano “l’ urgente necessità di trovare mezzi di sussistenza”. Equivale a una società che non ha più uno stato di diritto, si rivolge ad alcuni di questi gruppi di estremisti violenti per fornire sicurezza. Gruppi terroristici come lo Stato Islamico, Boko Haram o Al-Qaeda emergono a causa delle condizioni locali, ma poi iniziano ad accumulare armi e ad assicurarsi finanziamenti, come nel caso del Sahel, permettendo ad altre cellule di rifornirsi autonomamente. La dimensione geopolitica non dovrebbe sorprendere nessuno. Dove gli Stati non sono più in grado di fornire lo stato di diritto o una sicurezza nazionale significativa, allora l’opportunità per altri attori di diventare parte di questo dramma cresce in modo esponenziale, lo abbiamo visto in Mali, lo abbiamo visto in Libia, lo abbiamo visto al Corno d’Africa».

E verrebbe da dire che molti fanno finta di non vederlo o di vedere qualcos’altro, anche in Italia, proseguendo con le politiche neocolonialiste basate sull’accaparramento delle risorse e con avccordi con quegli stessi governi che perpetuano e alimentano con la forza e la repressione una situazione di insicurezza che produce miliziani e profughi.