Sono i giovani italiani i migranti di cui dobbiamo preoccuparci
Nell’ultimo anno gli espatriati sono stati 124.076, in crescita del 15,4% (e del 23,3% tra i 18 e 34 anni)
[17 Ottobre 2017]
Dall’inizio dell’anno ad oggi sono 109.685 i migranti arrivati in Italia, con un calo rispetto all’anno scorso del 24,44% confermato dal ministero dell’Interno. Numeri rilevanti ma ben lontani da quello spauracchio della “invasione” così spesso agitato in questo clima pre-elettorale. In compenso, altri migranti rimangono sullo sfondo: sono gli italiani che fuggono all’estero, questi sì in costante crescita soprattutto tra i giovani.
Come spiega la XII edizione del rapporto “Italiani nel mondo” della Fondazione Migrantes, presentato stamattina a Roma, da gennaio a dicembre 2016 le iscrizioni per solo espatrio all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (Aire) sono state 124.076, con un +15,4% rispetto all’anno precedente che arriva addirittura a +23,3% guardando la fascia d’età 18-34 anni: oltre il 39% di chi ha lasciato l’Italia nell’ultimo anno è un giovane, o un giovane adulto. «A questi si aggiunga il 9,7% di chi ha tra i 50 e i 64 anni – osserva la Fondazione Migrantes – i tanti “disoccupati senza speranza” tristemente noti alle cronache del nostro Paese poiché rimasti senza lavoro in Italia e con enormi difficoltà di riuscire a trovare alternative occupazionali concrete per continuare a mantenere la propria famiglia e il proprio regime di vita».
È il Regno Unito della Brexit, con 24.771 iscritti, a registrare un primato assoluto tra tutte le destinazioni, seguito dalla Germania (19.178), dalla Svizzera (11.759), dalla Francia (11.108), dal Brasile (6.829) e dagli Stati Uniti (5.939). I migranti italiani arrivano soprattutto dal ricco Nord: la Lombardia, con quasi 23 mila partenze, si conferma la prima regione da cui gli italiani hanno lasciato l’Italia alla volta dell’estero, seguita dal Veneto (11.611), dalla Sicilia (11.501), dal Lazio (11.114) e dal Piemonte (9.022).
Come risultato finale, al 1 gennaio 2017 gli italiani residenti fuori dei confini nazionali e iscritti all’Aire (non contando dunque tutti i non-iscritti) sono 4.973.942, ovvero l’8,2% degli oltre 60,5 milioni di residenti in Italia alla stessa data. Una dinamica che è profondamente accelerata dall’era pre-crisi, contando che dal 2006 al 2017 la mobilità italiana «è aumentata del 60,1%, passando da poco più di 3 milioni a quasi 5 milioni di iscritti».
Perché è in primis proprio la mancanza di opportunità e futuro nel proprio Paese a spingere sempre più italiani a divenire loro malgrado migranti. «La mobilità – commenta la Fondazione Migrantes – è una risorsa perché permette il confronto con realtà diverse ed è, se ben indirizzata, una opportunità di crescita e arricchimento. Oggi, però, nello stato generale di recessione economica e culturale in cui ci si ritrova, la migrazione, per gli italiani in particolare, è diventata nuovamente, come in passato, una valvola di sfogo, ciò che potrebbe permettere di trovare una sorte diversa rispetto a quella a cui si è destinati nel territorio di origine».
Il problema è proprio nell’unidirezionalità di queste migrazioni, non certo nel viaggio in sé. «La mobilità travalica oggi i confini nazionali e, in uno spazio sempre più globale – continua la Fondazione – deve diventare “ben-essere” condiviso, di molti e tra più persone. Oggi assistiamo sempre più a una mobilità da spinta” quando invece essa deve essere spontanea e accompagnata con la valorizzazione delle persone, di chi sono e di cosa sanno fare nei luoghi più diversi. È questa, probabilmente, la libertà di movimento auspicata dai padri fondatori dell’Unione Europea, un “immenso appartamento” dove sentirsi a casa in qualsiasi stanza». Un sogno, questo, che è stato però mai pienamente raggiunto e anzi, in questo momento «purtroppo si allontana sempre più. Alcuni, infatti hanno pensato che la libertà non potesse riguardare tutti, ma solo alcuni, mentre chi è ritenuto privo di questo diritto va fermato. Ed è così che la faticosa “politica dei ponti” sta lasciando sempre più spazio alla “politica dei muri” e che la memoria storica di un passato di guerra, soprusi, dittature e povertà si sta affievolendo sempre di più».
L. A.