Il premio Nobel per la Pace al premier etiope Abiy Ahmed Ali
Il riformista in pericolo che ha fatto la pace con l’Eritrea. La pesante eredità del passato coloniale italiano, delle dittature, del neocolonialismo e della frammentazione etnico/religiosa
[11 Ottobre 2019]
Chi sperava che il premio Nobel per la Pace 2019 andasse a Greta Thunberg aveva fatto male i conti con la tradizione di un riconoscimento che solitamente – ma non sempre come dimostra il caso della pakistana Malala Yousafzai, la più giovane vincitrice di un Nobel di sempre – va a personalità con ben altra età e storia alle spalle di quella che resta pur sempre una ragazzina svedese di 16 anni che in un anno è passata dalla protesta solitaria davanti al Parlamento di Stoccolma a parlare di fronte all’Assemblea generale dell’Onu. La scelta del Comitato norvegese per il Nobel è ricaduta sul 42enne primo ministro etiope Abiy Ahmed Ali – o “Abiyot” (rivoluzione) come lo chiamavano fin da bambino e quando era un guerrigliero oromo – «per i suoi sforzi per raggiungere la pace e la cooperazione internazionale, e in particolare per la sua decisiva iniziativa per risolvere il conflitto di confine con la vicina Eritrea. Il premio ha anche lo scopo di riconoscere tutte le parti interessate che lavorano per la pace e la riconciliazione in Etiopia e nelle regioni dell’Africa orientale e nord-orientale».
Insomma un premio per la “colomba” fortunatamente spuntata nella polveriera del Corno d’Africa quando, a sorpresa, Abiy Ahmed è diventato premier nell’aprile 2018, interrompendo lui – espressione dell’Oromo peoples’ democratic organization – il dominio tigrino contro il quale si era levata l’etnia più numerosa dell’Etiopia, gli Oromo. Nessuno aveva inizialmente creduto alla sua volontà di riprendere i colloqui di pace con un altro tigrino, Isaias Afwerki, l’ex guerrigliero anti-etiope ed eterno dittatore dell’Eritrea, ma, come si legge nella motivazione del Nobel, «Abiy Ahmed ha rapidamente elaborato i principi di un accordo di pace per porre fine al lungo stallo “nessuna pace, nessuna guerra” tra i due Paesi. Questi principi sono enunciati nelle dichiarazioni che il primo ministro Abiy e il presidente Afwerki hanno firmato ad Asmara e Jedda lo scorso luglio e settembre. Una premessa importante per la svolta è stata la volontà incondizionata di Abiy Ahmed di accettare la sentenza arbitrale di una commissione internazionale di confine nel 2002. La pace non deriva dalle azioni di una sola parte. Quando il primo ministro Abiy ha porto la mano, il presidente Afwerki l’ha stretta e lo ha aiutato a formalizzare il processo di pace tra i due Paesi». Certo, per il comitato norvegese per il Nobel sarebbe stato molto difficile premiare anche uno come Afwerki però «spera che l’accordo di pace contribuirà a determinare cambiamenti positivi per l’intera popolazione dell’Etiopia e dell’Eritrea». In una nota, l’ufficio del primo ministro etiope si dice orgoglioso per la Nazione per il premio Nobel ricevuto da Aby.
In Etiopia, Paese poverissimo, che dopo la liberazione dall’occupazione italiana è stato governato da un vetusto impero in guerra con tutte le etnie che lo costituivano e poi da feroci dittature filosovietiche, per poi passare di mano a governi autoritari gestiti da ex guerriglieri “socialisti” convertitisi al neoliberismo; un Paese che partecipa ancora al conflitto somalo contro le milizie islamiste di al-Shabaab e subisce le conseguenze della guerra civile sud-sudanese dove c’è ancora molto da fare per la Pace, ma il premio Nobel punta dichiaratamente ad appoggiare le riforme avviate da Abiy «che danno a molti cittadini la speranza per una vita migliore e un futuro più luminoso. Ha trascorso i suoi primi 100 giorni come primo ministro togliendo lo stato di emergenza nel Paese, concedendo l’amnistia a migliaia di prigionieri politici, interrompendo la censura dei media, legalizzando i gruppi di opposizione illegali, licenziando leader militari e civili sospettati di corruzione e aumentando significativamente l’influenza di donne nella vita politica e comunitaria etiopica. Ha anche promesso di rafforzare la democrazia organizzando elezioni libere ed eque».
Ma il Nobel va anche all’uomo di pace: «Sulla scia del processo di pace con l’Eritrea, il primo ministro Abiy si è impegnato in altri processi di pace e riconciliazione nell’Africa orientale e nordorientale. Nel settembre 2018, lui e il suo governo hanno contribuito attivamente alla normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra l’Eritrea e Gibuti dopo molti anni di ostilità politica. Inoltre, Abiy Ahmed ha cercato di mediare tra il Kenya e la Somalia nel loro protratto conflitto sui diritti di un’area marina controversa. Ora c’è speranza per una soluzione a questo conflitto. In Sudan, il regime militare e l’opposizione sono tornati al tavolo dei negoziati. Il 17 di agosto hanno pubblicato la bozza congiunta di una nuova Costituzione tesa a garantire una transizione pacifica verso il potere civile nel Paese. Il primo ministro Abiy ha svolto un ruolo chiave nel processo che ha portato all’accordo».
Il continente Etiopia, l’ex impero dell’Abissinia che i fascisti conquistarono al canto di “faccetta nera” solo spargendo iprite, bombardando villaggi, massacrando i monaci cristiani copti, stuprando le donne e facendo delle bambine schiave sessuali, è come ricorda la stessa motivazione del Nobel, «un Paese di molte lingue e popoli diversi. Ultimamente, vecchie rivalità etniche si sono riaccese. Secondo osservatori internazionali, fino a tre milioni di etiopi potrebbero essere sfollati interni. Ciò si aggiunge al milione di rifugiati e richiedenti asilo provenienti dai Paesi vicini». E’ la realtà sconosciuta in Italia delle nostre ex colonie dimenticate, del nostro colonialismo genocida negato, della maschera gentile degli italiani brava gente, che nell’Africa Orientale Italiana e in Libia avrebbero portato il progresso e le strade, con qualche spiacevole effetto collaterale di migliaia di impiccati e fucilati o trucidati nei loro villaggi.
E Abiy, cristiano protestante in un Paese di 100 milioni di copti, musulmani e animisti, invece si è visto assegnare il Nobel perché «ha cercato di promuovere la riconciliazione, la solidarietà e la giustizia sociale. Tuttavia, molte sfide rimangono irrisolte. Il conflitto etnico continua a intensificarsi e nelle ultime settimane e mesi abbiamo visto esempi preoccupanti di ciò. Non c’è dubbio che alcune persone penseranno che il premio di quest’anno sia stato assegnato troppo presto. Il Comitato norvegese per il Nobel ritiene che ora gli sforzi di Abiy Ahmed meritino il riconoscimento e debbano essere incoraggiati».
E il Comitato per il Nobel non nasconde che il premio è anche un’assicurazione politica – e forse sulla vita – per un premier che con le sue politiche innovative e pacifiste si è messo contro la vecchia guardia del potere etiope (a giugno in Etiopia c’è stato un tentativo di golpe, ndr) e che non fa mistero di volersene sbarazzarsene non appena la situazione sarà più tranquilla. Jeune Afrique, uno dei giornali più autorevoli dell’Africa, ha definito Abiy Ahmed «un riformista in pericolo». Il Comitato norvegese per il Nobel «spera che il premio Nobel per la pace rafforzi il primo ministro Abiy nel suo importante lavoro per la pace e la riconciliazione. L’Etiopia è il secondo paese più popoloso dell’Africa e ha la più grande economia dell’Africa orientale. Un’Etiopia pacifica, stabile e di successo avrà molti effetti collaterali positivi e contribuirà a rafforzare la fratellanza tra le nazioni e i popoli della regione. Con in mente le disposizioni di Alfred Nobel, il Comitato norvegese vede Abiy Ahmed come la persona che nell’anno precedente ha fatto di più per meritare il premio Nobel per la pace per il 2019».