I militari alleati dell’Egitto, i ribelli di Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti
In Sudan è guerra per le risorse e il potere tra esercito e paramilitari
Ancora una volta gli sconfitti sono i democratici sudanesi e la pace
[17 Aprile 2023]
Secondo il corrispondente di Radio France International (RFI) da Khartoum, Eliott Brachet, stamattina in Sudan continuavano i combattimenti tra gli ammutinati delle Rapid Support Forces (RSF) e le truppe regolari delle Sudanese Armed Forces (SAF) e «Per ora, è ancora oggi difficile individuare i rapporti di forza. Ciascuna parte rivendica successi militari. Le RFS affermano di detenere l’aeroporto e il palazzo presidenziale, cosa che l’esercito nega, il che garantisce che mantenga il suo quartier generale. Entrambi i fronti rivali affermano di aver preso il controllo della televisione nazionale, che continua a trasmettere canti patriottici tutto il giorno».
Quello che è certo è che ieri sono continuati bombardamenti e sparatorie e che, nonostante i due ex alleati si fossero accordati per aprire per 3 ore corridoi umanitari, gli scontri non sono rallentati, con grande rammarico dei medici sudanesi che già domenica contavano più di 600 feriti e una 97 vittime (ma i morti e i feriti sarebbero molti di più) e tra questi ci sono anche tre operatori del World Food Programme (WFP) uccisi il 15 aprile a Kabkabiya, nel Darfur settentrionale, proprio da dove vengono le milizie delle RSF che altro non sono che i famigerati Janjaweed che si sono rese colpevoli di innumerevoli stragi nel Darfur e poi sono diventati a tutti gli effetti una forza paramilitare alleata dell’esercito per controllare sia le etnie ribelli che l’opposizione democratica sudanese.
Dopo gli attacchi agli operatori umanitari e a un aereo di soccorso, la direttrice esecutiva del WFP, Cindy McCain, ha annunciato la sospensione degli aiuti umanitari, dopo la morte di tre dei suoi dipendenti e il segretario generale dell’Onu, António Guterres, ha chiesto che i responsabili siano assicurati alla giustizia il prima possibile.
La guerra tra le due fazioni armate è esplosa dopo mesi di tensione e ormai per le strade di Khartoum ci sono solo soldati e miliziani che si combattono intorno alle basi militari e ai centri del potere da dove escono colonne di fumo. Il conflitto tra gli ex alleati si è esteso a Port-Sudan e Kassala, nel Sudan orientale, a El-Obeid nel centro, e ancora nel Darfur e in altre grandi città e il generale Hemedti, a capo delle RSF ha dichiarato che le sue truppe paramilitari non si fermeranno finché non avranno il controllo di tutte le basi militari del Paese. Ma intanto vengono segnalati bombardamenti delle basi ribelli da parte di Jet dell’esercito sudanese appoggiato dall’Egitto, mentre le RSF sono alleate di Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti che le hanno utilizzate come mercenari nella guerra nello Yemen contro gli Houthi sciiti che governano a Sana’a.
Le RSF/ Janjaweed sono state create nel 2013 in Darfur dall’ex presidente-dittatore Omar el-Bashir, come spiega Roland Marchal, ricercatore di Sciences Po Paris sul Sudan, ai microfoni di Gaëlle Laleix, della redazione Afrique di RFI, «Allora si trattava di utilizzare le milizie janjaweed contro i gruppi ribelli. Ma questi paramilitari sono cresciuti. I militari hanno creato le RFS e, nel resto del decennio degli anni 2010 – grazie in particolare agli Emirati Arabi Uniti e alla guerra nello Yemen – c’è stato un rafforzamento molto maggiore di queste forze paramilitari che sono state utilizzate in diversi conflitti, con l’accordo del presidente sudanese Omar al-Bashir, in particolare nello Yemen e poi anche in Libia nel loro sostegno al generale Haftar. Questo potere economico ha fatto crescere questa forza. Oggi è stimata a più di 110.000 uomini. E’ davvero un secondo esercito e, ovviamente, il suo capo, acquisendo sia un profilo militare molto più ampio che una dimensione economica molto più estesa, ha deciso che forse era necessario fare politica. Non è che abbiamo proprio a che fare con un grande sincero democratico»
Il comando delle forze regolari e il generale Abdel Fattah al-Burhan che preside il governo di transizione assicurano che la vittoria contro i ribelli è vicina che la vittoria è vicina, ma sembra solo propaganda per rassicurare l’Egitto che, dopo l’arresto di alcuni piloti – prima considerati invasori e poi rilasciati – da parte dei ribelli potrebbe essere tentato di intervenire per salvare il regime amico di al-Burhan. Soprattutto dopo che la RFS ha distrutto Mig-29 egiziani nell’aeroporto di al-Burhan, dove stavano partecipando a esercitazioni congiunte con il Sudan.
I due generali al-Burhan e Hemedti – ex alleati durante il golpe del 2021 – sembrano essere arrivati allo scontro finale e la goccia che ha fatto traboccare il vaso è il disaccordo su come integrare le RSF nell’esercito, una disposizione prevista nel futuro accordo politico che avrebbe dovuto restituire il potere ai civili. Accordo la cui firma è stata rinviata a tempo indeterminato.
Da sabato si moltipolicano le richieste di cessazione delle ostilità da parte di Onu, Russia, Unione europea, Lega Araba, Unione Africana e dei Paesi confinanti con il Sudan. In un tweet , il portavoce del Segretario generale dell’Onu ha scritto che Guterres ha parlato con il presidente egiziano Abdel Fattah el-Sisi e con Moussa Faki Mahamat, presidente dell’Unione africana, su come ridurre la tensione. Guterres avrebbe parlato anche con i capi militari delle fazioni contrapposte – il tenente generale Abdel Fattah Al Burhan dell’esercito sudanese e il tenente generale Mohamed Hamdan Dagalo della RSF – chiedendo «L’immediata cessazione delle violenze e un ritorno al dialogo e all’offerta dei suoi buoni uffici, in stretto coordinamento con gli sforzi in corso per ripristinare la sicurezza e concludere il processo politico in corso». Guterres ha anche espresso preoccupazione per «L’impatto devastante che un’ulteriore escalation dei combattimenti avrebbe sui civili, aggravando ulteriormente la già precaria situazione umanitaria nel Paese». E Martin Griffiths, coordinatore dei soccorsi di emergenza dell’Onu ha aggiunto che «Ulteriore violenza non farebbe che peggiorare le cose per i quasi 16 milioni di persone, circa un terzo della popolazione, bisognose di aiuti umanitari». Infatti, solo il 13 aprile un aggiornamento sulla situazione umanitaria in Sudan, pubblicato dall’UN Office for the Coordination of Humanitarian Affairs (OCHA) aveva rilevato che «I bisogni umanitari in tutto il Sudan sono ai massimi storici, con il conflitto che è uno dei quattro rischi più significativi, insieme a disastri naturali, epidemie e deterioramento economico».
Il 15 aprile il conflitto annunciato è scoppiato davvero e Volker Türk, il capo dei diritti umani dell’Onu ha commentato sconsolato che «Il popolo del Sudan merita di meglio. E’ urgentemente necessaria una voce della ragione, al fine di fermare la violenza e “ritornare al precedente promettente percorso verso la pace e la transizione civile».
Ma quello che vive il Sudan oggi – con il sottofondo di raffiche di mitragliatrici pesanti e bombe che esplodono – è proprio lo scenario peggiore tanto temuto. Una lotta di potere tra i due generali più potenti del Sudan per appropriarsi delle risorse petrolifere del Paese, mentre entrambi giurano su Hallah il compassionevoile e misericordioso di essere dalla parte del popolo sudanese che hanno per anni represso e massacrato.
«Tutti si stanno sgomitando per rafforzare il proprio potere, prima di una possibile transizione democratica – spiega un giornalista sudanese – Da un lato il generale al-Burhan, a capo dell’esercito – sostenuto dagli ex sostenitori di Omar el-Bashir, e dagli islamisti – che si aggrappa al potere, afferma lo stesso giornalista, mentre cerca di limitare l’ascesa del suo rivale . Dall’altra il generale Hemedti, capo delle Forze di supporto rapido, le Rsf, che da diversi mesi sta cercando di trasformare la sua immagine di leader della milizia in un politico, sostenendo la democrazia», ma con dietro le spalle un passato di msassacri in Darfur, Yemen e Libia e alleato di due monarchie assolute islamiche come l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti che con la democrazia hanno davvero poco a che fare. I perdenti di questa guerra sdono i sudanesi democratici ai quali un accordo politico avrebbe dovuto restituire il governo del Paese e che vedono ancora una volta trasformarsi in un incubo sanguinario il loro sogno di democrazia.