La guerra in Sudan crea la crisi di sfollati in più rapida crescita nel mondo
Gli emirati Arabi uniti e la Russia forniscono armi ai ribelli. Arabia Saudita, Qatar e Turchia all’esercito
[6 Ottobre 2023]
Mentre in Sudan continuano sanguinosi combattimenti, Clementine Nkweta-Salami, vice rappresentante speciale del Segretario generale dell’Onu António Guterres e coordinatrice residente e umanitaria in Sudan ha avvertito che «Il conflitto ha creato “la crisi di sfollati in più rapida crescita al mondo, che minaccia di superare i migliori sforzi dell’Organizzazione per aiutare i più bisognosi. Gli ultimi sei mesi hanno causato sofferenze indicibili in Sudan” e costretto più di 5,4 milioni di persone ad abbandonare le loro case». Durante una conferenza stampa a Ginevra, la Nkweta-Salami ha ricordato che «Circa 30.000 persone al giorno sono fuggite dai combattimenti, alcune fuggono con nient’altro che i vestiti che hanno addosso. Ho incontrato madri in Sudan che mi hanno detto che non sanno dove trovare il prossimo pasto per i loro figli. Ho incontrato famiglie che dormono in rifugi di fortuna, che faticano a trovare cibo e acqua e non possono accedere all’assistenza sanitaria; i loro figli sonop senza scuola e i capifamiglia senza lavoro. Metà della popolazione del Sudan – 24,7 milioni di persone – ora necessita di assistenza umanitaria e protezione. Conflitti, sfollamenti ed epidemie ora “minacciano di consumare l’intero paese».
A settembre l’Onu e i suoi partner hanno consegnato 3.000 tonnellate di aiuti salvavita utilizzando 66 camion in sei Stati sudanesi Ma la Nkweta-Salami ha detto che «Dobbiamo essere in grado di fornire molto di più, in modo sicuro, ripetuto e veloce. Dobbiamo raggiungere 18 milioni di persone e non rinunceremo a questo obiettivo».
La guerra subito dimenticata del Sudan è iniziata il 15 aprile, quando sono iniziati scontri con armi pesanti e attacchi aerei tra gli ex alleati delle Sudanese Armed Forces (SAF), lesercito regolare, e le Rapid Support Forces (RSF), i miliziani “arabi” alleati dei militari golpuisti che si sono ribellati per cercare di prendere il potere. Inizialmente i combattimenti inizialmente si sono concentrati nella capitale Khartoum e nei dintorni e nella martoriata regione del Darfur, ma la Nkweta-Salami teme che la guerra civile possa estendersi allo Stato di Gezira, il granaio del Sudan, perché «Questo avrebbe grandi conseguenze per la sicurezza alimentare. La violenza ha già paralizzato il settore sanitario del Sudan, con il 70% di tutti gli ospedali che non sono più funzionanti».
Anche gli operatori umanitari sono sempre più preoccupati per le segnalazioni di crescenti casi di violenza sessuale e di genere, sparizioni forzate, detenzioni arbitrarie e gravi violazioni dei diritti umani e dei bambini. Oltre alla distruzione provocata dalla guerra, che probabilmente ha causato la morte di migliaia di persone, tra cui 19 operatori umanitari, nelle ultime settimane la popolazione del Sudan ha dovuto affrontare forti piogge e inondazioni che hanno colpito più di 70.000 persone in 7 Stati cresce la preoccupazione per un aumento delle malattie trasmesse dall’acqua. Nello Stato orientale di Gedaref è stata dichiarata l’epidemia di colera e gli operatori umanitari stanno già indagando se si sia diffusa anche a Khartoum e nel Sud Kordofan. La Nkweta-Salami avverte che «Con l’escalation dei combattimenti, potrebbe essere quasi impossibile tenerla sotto controllo. Invito le parti in conflitto a mantenere gli impegni precedenti di ridurre i combattimenti, ridurre al minimo i danni civili e astenersi da qualsiasi attacco sproporzionato. Fornire aiuti in una zona di guerra è estremamente complicato, pericoloso e richiede molto tempo, e spesso comporta negoziati con vari gruppi armati per l’accesso alle comunità. Nonostante queste sfide, le squadre di soccorso stanno intensificando gli sforzi per raggiungere le comunità più vulnerabili del Sudan. Abbiamo un team umanitario molto impegnato sul posto, stiamo cercando di superare i limiti della nostra capacità di arrivare in alcune di queste aree difficili da raggiungere. E penso che se otteniamo non solo un impegno forte, ma un impegno che si traduca oggi in azioni positive da parte di tutte le parti coinvolte in questo conflitto, allora si può sperare che non ci saranno più morti tra gli operatori umanitari».
Ma chi è che continua ad armare l’esercito e le milizie ribelli?
Il 30 settembre il New York Times ha pubblicato in prima pagina un articolo che accusa gli Emirati Arabi Uniti (EAU) di fomentare lo scontro in Sudan mentre parlano di pace e documenta l’invio di armamenti alle RSF mascherato da intervento umanitario a sostegno dei rifugiati nei campi profughi del Ciad. Un’indagine rilanciata in Italia da Nigrizia che spiega che «L’operazione ha come base un ospedale, sembra poco frequentato da profughi sudanesi, e una pista in territorio ciadiano, nelle vicinanze del confine con il Darfur. Aerei cargo sarebbero atterrati quasi quotidianamente da giugno scaricando, insieme ad aiuti umanitari, armi e droni diretti alle Forze di supporto rapido. Gli aerei sarebbero poi ripartiti trasportando miliziani gravemente feriti da curare in uno degli ospedali militari degli Emirati stessi. La notizia è basata su foto satellitari e testimonianze di funzionari dell’intelligence di diversi Paesi occidentali, Usa e Ue in particolare, che hanno passato le informazioni chiedendo l’anonimato. Gli Emirati naturalmente negano, anche perché ufficialmente fanno parte del Quad, il gruppo di paesi composto anche da Stati Uniti, Gran Bretagna e Arabia Saudita, che cercano di negoziare la pace. Il loro supporto ad una delle due parti in conflitto sarebbe dunque estremamente imbarazzante».
Ma il coinvolgimento degli EAU nella guerra civile sudanese è corroborato da altre prove: il 10 agosto il canale arabo indipendente Al Mayadeen ha rivelato che le autorità aeroportuali dell’Uganda avevano trovato armi e munizioni su un cargo degli Emirati atterrato a Entebbe all’inizio di giugno e che dichiarava di trasportare aiuti umanitari ai rifugiati sudanesi. Tra i primi a segnalare decine di movimenti sospetti di aerei cargo dagli Emirati, via Uganda e poi verso la Repubblica Centrafricana e il Ciad, è stato il primo luglio Martin Plaut, un free lance ben informato sulle questioni del Corno d’Africa, che denunciava l’inc vio di armi alle RSF.
Secondo un diplomatico statunitense, il capo delle RSF, il generale Mohamed Hamdan Dagalo, più noto come Hemeti, è un uomo degli Emirati e atteraverso le sue feroci milizie cercherebbero di avere un’influenza sempre maggiore in Africa, in competizione con Arabia Saudita e Qatar che hanno diversi interessi economici e un’altra concezione dell’islam. D’altrinde, è noto che mercenari sudanesi delle RSF hanno combattuto Yemen e poi in Libia al soldo del gli EAU. «Legami stretti – denuncia Nigrizia – grazie al commercio dell’oro, estratto dal Jebel Amer, in Darfur, e gestito da Hemeti e famiglia in collaborazione con il gruppo russo Wagner, molto spesso bypassando i canali governativi ufficiali.Il minerale viene poi commercializzato negli Emirati, uno dei più importanti hub mondiali nel settore, dove non è difficile trattare anche oro trafficato illegalmente. Negli ultimi due anni il business sarebbe servito a sostenere lo sforzo bellico russo in Ucraìna, bilanciando le perdite economiche dovute alle sanzioni comminate dai Paesi occidentali».
Invece l’esercito regolare potrebbe essere finora auto-equipaggiato, almeno per quanto riguarda gli armamenti di base. Per il resto, ma potrebbe essere ifornito di armi pesanti da Arabia Saudita, Qatar e Turchia, già alleati della dittatura islamista di El-Bashir.
intanto in Sudan si formano algtre milizie alleate dei militari o dei ribelli e secondo Khristopher Carlson, ricercatore per il Sudan e il Sud Sudan del programma internazionale Small Arm Survey, «il Paese è pieno zeppo di armi» e lo scontro tra due signori della guerra si è trasformato in una guerra civile conclamata e diffusa che rischia di tracimare nei Paesi vicini.