Perché 2 milioni di disperati stanno mettendo i crisi il continente più ricco del pianeta?
Oggi la prima Giornata della memoria e dell’accoglienza: migranti, da untori a risorsa
Realacci: «Ricorrenza che fa onore all’Italia, paese di emigrazione». Il confronto tra Massimo Livi Bacci e Tito Boeri
[3 Ottobre 2016]
Il 3 ottobre di tre anni fa al largo di Lampedusa morirono 386 persone, migranti fuggiti dalla loro terra sotto il flagello di guerre e fame. In larga parte provenivano da un’ex colonia italiana, l’Eritrea, e cercavano in Europa una speranza di vita (migliore). Non ce l’hanno fatta. Grazie a una legge elaborata dal Comitato 3 ottobre e approvata dal Parlamento lo scorso marzo, oggi celebriamo la Giornata della memoria in ricordo di quella tragedia.
«Una data simbolica che fa della ricorrenza del tragico naufragio di Lampedusa del 2013 la giornata in ricordo di tutti i migranti morti nel tentativo di fuggire da persecuzioni, guerre, fame e miseria, nonché di tutti gli uomini che per salvarli mettono a rischio la propria vita. Questa ricorrenza fa onore all’Italia, al suo passato di paese di emigrazione e ci parla anche del nostro futuro. Istituita grazie a una legge elaborata dal Comitato 3 Ottobre, di cui insieme ai colleghi Paolo Beni e Khalid Chaouki sono uno dei firmari – commenta il presidente della commissione Ambiente della Camera, Ermete Realacci – la Giornata nazionale della Memoria e dell’Accoglienza manda un chiaro messaggio all’Europa. Che ritroviamo anche nell’esito del voto ungherese: il mancato raggiungimento del quorum nel referendum anti-migranti voluto da Orban ci parla del nostro futuro comune, che non è quello dei muri».
Oggi celebriamo la prima Giornata nazionale della memoria e dell’accoglienza. Accoglienza come gesto d’umanità, ma anche come politica negli interessi dell’Italia e dell’Europa. Come è stato ribadito nei giorni scorsi all’interno di un appuntamento ormai classico della cultura italiana, l’annuale “Incontro di Caidate” organizzato dalla famiglia Barbiano di Belgiojoso, l’immigrazione extracomunitaria rappresenta per il Paese una risorsa. Regolamentata, certo, ma indispensabile per un Paese in netto declino demografico.
A confrontarsi sul tema sono stati Massimo Livi Bacci e Tito Boeri, rispettivamente uno dei più noti demografi italiani e il presidente dell’Inps. Il ceto medio europeo, impoverito e impaurito dalla crisi, identifica gli “untori” nei profughi e nei migranti: un paio di milioni di disperati (ma altri milioni premono alle porte) stanno mettendo in crisi – sottolineano gli organizzatori – 500 milioni di europei. I governi, sotto la spinta del malcontento popolare, stanno innalzando i muri e barriere legali, minando le basi stesse dell’Unione che parlano di libera circolazione di persone, idee, beni.
Nel 2015 si sono contati oltre un milione di arrivi, nel 2016 se ne prevedono 400.000. Chi fugge dalla guerra e viene considerato profugo dalla Convenzione di Ginevra ed ha diritto ad accoglienza e protezione. Chi lo fa per ragioni economiche – l’immigrato – alla ricerca di una vita migliore; questi non ha tutele e può essere rimandato nel suo Paese di origine, anche se il distinguo tra le due posizioni è talvolta difficile. Inoltre molti profughi, specialmente siriani, intendono ritornare al Paese d’origine appena i conflitti finiranno.
Nel mentre queste persone – se aiutate nel loro inserimento – possono dare un contributo importante al paese ospitante. In un continente che denuncia un vistoso calo demografico e sempre meno giovani, cioè lavoratori di oggi che contribuiscono alle pensioni di domani, i dati Inps parlano chiaro: gli immigrati hanno versato finora contributi per 8 miliardi di euro ricevendo in cambio solo 3 miliardi (due per assistenza e uno per le pensioni): quindi, un “regalo” di 5 miliardi alle non floride casse dello Stato.
Regolamentando in modo serio, solidaristico e non ideologico gli afflussi, approntando al contempo adeguate strutture di accoglienza, potremmo passare dalla logica dell’appestato a quella dell’integrazione. Con reciproci vantaggi per tutti: l’Europa, suggeriva già quarant’anni fa il premio Nobel per la pace Willy Brandt, non può pensare di continuare a sopravvivere «come un’isola di ricchezza in un mare di povertà».