Ban Ki-moon afflitto per le conclusioni dell’inchiesta sulla Unmiss e le violenze a Juba
Sud Sudan nel caos: le forze kenyane dell’Onu si ritirano dopo il licenziamento del loro comandante
30.000 profughi sud-sudanesi trasferiti nella Repubblica democratica del Congo
[3 Novembre 2016]
Il Kenya ha annunciato il ritiro dei suoi 1.000 soldati dalla missione dell’Onu in Sud Sudan dopo il licenziamento di Johnson Mogoa Kimani Ondieki, il comandante Kenyano dell’United Nations mission in the Republic of South Sudan (Unmiss). L’Onu aveva annunciato la sostituzione immediata di Kimani Ondieki dopo la pubblicazione di un rapporto dal quale emerge che i caschi blu di stanza in Sud Sudan avevano reagito in maniera «caotica e inefficace» alle violenze scatenatesi a luglio a Juba, la capitale del Sud Sudan. La Unmiss non avrebbe protetto i civili dalle aggressioni sessuali perpetrate da esercito e ribelli.
Il ministro deli esteri del Kenya, dopo essersi dichiarato costernato per il licenziamento di Kimani Ondieki, spiega in un comunicato che «Il governo del Kenya stima che il dispiegamento delle sue truppe in Sud Sudan non sia più sostenibile e che costituisca una minaccia per la loro sicurezza e benessere . L’Unmiss soffre di mal funzionamenti fondamentali, strutturali e sistemici. E’ spiacevole che invece di affrontare direttamente le lacune, le Nazioni Unite abbiano deciso di attribuirle direttamente a un solo individuo».
Il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon si è detto «profondamente afflitto» per le conclusioni dell’inchiesta e «inquieto per le gravi lacune identificate». Il rapporto sottolinea che le forze dell’Onu hanno fallito nella risposta all’incursione dei soldati sud-sudanesi nell’hotel vicino a una base Onu che ospitava gli impiegati di diverse organizzazioni internazionali.
Secondo Human Rights Watch, diverse cooperanti straniere sarebbero state violentate e dei giornalisti sud-sudanesi uccisi davanti a testimoni durante gli scontri che hanno opposto le forze governative e quelle dell’opposizione guidate dall’ex vice-presidente Rieck Machar, una guerra civile/tribale per il potere, per il petrolio e le terre fertili.
L’inchiesta Onu, diretta dal generale in pensione olandese Patrick Cammaert, mette sotto accusa il commando dell’Unmiss e la mancanza di preparazione dei caschi blu di fronte a un evento prevedibile come la ripresa degli scontri tra forze governative e ribelli e una «avversione ai rischi» che avrebbe reso la missine Onu a guida kenyana reticente nell’usare la forza per proteggere i civili.
Addirittura, due mesi dopo gli scontri di luglio a Juba, i caschi blu non pattugliavano più regolarmente a piedi o di notte le strade della capitale del più giovane Stato del mondo, ma si contentavano di sorvegliare i dintorni della base Onu da dietro i vetri dei loro blindati. Il rapporto dice che questo atteggiamento ha reso la Unmiss incapace di arrestare i responsabili delle violenze e di rassicurare la popolazione locale.
L’inchiesta mostra le prove che i caschi blu si sono rifiutati di intervenire di fronte a «degli atti di violenza sessuale che si producevano sotto i loro occhi il 17 e 18 luglio», come testimoniato da diverse Ong. Ma il rapporto sottolinea anche le «pietose performances» dei soldati Onu quando si tratta di difendere dei civili minacciati vicini alla loro base e fa l’esempio di una donna aggredita il 2 settembre a pochi metri dall’ingresso della base Onu che ha chiesto invano l’aiuto ai soldati e ai poliziotti dell’Unmiss, fino a che non sono intervenuti alcuni ufficiali.
L’Onu ha censito almeno 200 casi di violenze a Juba solo a luglio, perpetrati da uomini con l’uniforme delle truppe del presidente Saklva Kiir.
I circa 13.500 caschi blu dell’Unmiss erano già stati duramente criticati a febbraio per il loro comportamento durante l’attacco mortale a un campo profughi dell’Onu a Malakal, nel nord-est del Sud Sudan, durante il quale si erano rifiutati di difendere i civili.
L’inchiesta rivela che l’Unmiss non ha reagito efficacemente alle violenze a causa di «una mancanza generale di leadership, di preparazione e di integrazione tra le diverse componenti della missione». Inoltre, «Le disposizioni in materia di commando e di controllo erano inadeguate, mentre i soldati della pace mantenevano un atteggiamento ostile al rischio». Secondo l’inchiesta, questi fattori hanno contribuito all’incapacità dell’Unmiss a rispondere all’attacco dei soldati governativi al campo Terrain l’11 luglio e a proteggere i civili minacciati.
Nel rapporto si legge che «L’inchiesta speciale ha rivelato che l’Unmiss ha fatto fronte a un insieme di circostanze estremamente difficili e che si è trovata nel mezzo di un conflitto attivo particolarmente violento. Nel corso dei tre giorni di combattimenti, secondo alcune stime prudenti, d sono state uccise almeno 73 persone, delle quali più di 20 profughi interni nei siti di protezione dei civili. Due soldati della pace sono stati uccisi e diversi altri sono stati feriti. 182 edifici nel complesso dell’House delle Nazioni Unite sono stati colpiti da proiettili, da mortai e da granate».
Ban Ki-moon ha espresso tutta la sua indignazione per le violenze commesse a luglio a Juba e per «Il tradimento del popolo del Sud Sudan da parte di un nuomero troppo grande dei suoi leader. L’Unmiss ha salvato centinaia di migliaia di vite nel corso dei tre ultimi anni, compreso nei siti di protezione dei civili», ma dopo essersi complimentato con i caschi blu per la loro devozione ha rilanciato l’allarme per «Le gravi lacune indentificate dall’inchiesta speciale che si sono manifestate per il fatto che la missione non ha pienamente attuato il suo mandato di protezione dei civili e del personale dell’Onu durante i combattimenti».
In tanto l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati (Unhcr) ha annunciato di aver cominciato dal primo novembre a convogliare con dei bus circa 30.000 rifugiati sud-sudanesi verso Biringi, vicino alla città di Aru, nella regione dell’Ituri, nel nord-est della Repubblica democratica del Congo (Rdc).
L’Unhr spiega che «I rifugiati sono sparpagliati lungo la frontiera, su una fascia di diverse centinaia di Km» e che trasportarli «verso delle zone lontane dalla frontiera è una sfida enorme», visto anche le strade della regione sono in pessimo stato. L’Unhcr sottolinea che «L’obiettivo di questo ricollocamento non è creare dei campi per i rifugiati sud-sudanesi in Rdc, ma incoraggiare i rifugiati a diventare autosufficienti , vivendo a fianco delle popolazioni locali», cosa che sembra impossibile nella ricca Europa e che diventa fattibile nel poverissimo Congo devastato da anni di guerra per le risorse.
Berthe Zinga, coordinatrice della Commission nationale des réfugiés, il ricollocamento avverrà «principalmente verso tre siti e richiederà due settimane» per i 27.250 rifugiati interessati dall’operazione, ai quali se m ne aggiungeranno probabilmente altri spontaneamente.
L’Unhcr evidenzia che lungo la frontiera con il Sud Sudan i bisogni umanitari sono enormi, «In particolare nella provincia dell’Ituri che fa fronte all’afflusso più importante di rifugiati sud-sudanesi. In alcuni villaggi i nuovi arrivati sono più numerosi della popolazione locale».
Attualmente la povera Rdc accoglie più di 60.000 rifugiati del Sud Sudan, la maggioranza dei quali sono arrivati proprio dopo le violenze del luglio 2016, molti di questi rifugiati dichiarano di fuggire dal conflitto tra governativi e ribelli nello Stato sud-sudanese del Yei River