Per arginare l’emergenza climatica bisogna aumentare di 10 volte il taglio delle emissioni
Le emissioni globali di CO2 diminuite drasticamente nel 2020, ma nel 2021 è previsto un ribalzo
[4 Marzo 2021]
Il nuovo studio “Fossil CO2 emissions in the post-COVID era”, pubblicato su Nature Climate Change da un team internazionale di ricercatori che partecipano al Global Carbon Project conferma il preoccupante quadro delineato il 26 febbraio da un rapporto Unfccc: se è vero che 64 Paesi hanno ridotto le loro emissioni di CO2 nel periodo 2016-2019, si tratta però di solo un decimo di quanto è necessario per rispettare gli obiettivi dell’Accordo di Parigi.
Questo primo bilancio globale è stato realizzato da un team di ricercatori guidato da Corinne Le Quéré dell’università dell’East Anglia e da Glen Peters e Robbie Andrew del CICERO Center for International Climate Research e ha esaminato i progressi compiuti nella riduzione delle emissioni di CO2 fossile dall’adozione dell’accordo di Parigi nel 2015. I risultati mostrano «La chiara necessità di un’ambizione di gran lunga maggiore per il futuro all’importante vertice delle Nazioni Unite sul clima a Glasgow a novembre (COP26)».
Dallo studio emerge infatti un bilancio sconfortante dell’azione climatica: «I tagli annuali di 0,16 miliardi di tonnellate di CO2 sono solo il 10% degli 1-2 miliardi di tonnellate di tagli di CO2 necessari ogni anno a livello globale per affrontare il cambiamento climatico. Mentre le emissioni sono diminuite in 64 Paesi, sono aumentate in 150 Paesi. A livello globale, le emissioni sono aumentate di 0,21 miliardi di tonnellate di CO2 all’anno nel periodo 2016-2019 rispetto al periodo 2011-2015».
Se nel 2020, le misure di confinamento dovute alla pandemia di Covid-19 hanno ridotto le emissioni globali di 2,6 miliardi di tonnellate di CO2, circa il 7% al di sotto dei livelli del 2019, i ricercatori fanno notare che il 2020 è stato una specie di pulsante per la messa in pausa, una pausa che non può realisticamente continuare, dato che «Il mondo continua a basarsi in modo schiacciante sui combustibili fossili e le politiche di confinamento non sono né una soluzione sostenibile né auspicabile alla crisi climatica». Peters ha ricordato che «La pandemia di Covid-19 è arrivata quando le emissioni globali di CO2 mostravano segni di rallentamento. L’era post-Covid è un’opportunità unica per fissare questi primi guadagni e utilizzare i fondi per ila ripresa per accelerare il cambiamento».
Anche la Le Quéré, evidenzia che «Gli sforzi dei paesi per ridurre le emissioni di CO2 dall’accordo di Parigi stanno iniziando a dare i loro frutti, ma le azioni non sono ancora abbastanza su larga scala e le emissioni stanno ancora aumentando in troppi Paesi. Il calo delle emissioni di CO2 derivante dalle risposte al Covid-19 evidenzia la portata delle azioni e dell’adesione internazionale necessarie per affrontare il cambiamento climatico. Ora abbiamo bisogno di azioni su larga scala che siano buone per la salute umana e buone per il pianeta. E’ nell’interesse di tutti ricostruire meglio per accelerare l’urgente transizione verso l’energia pulita».
Ma questo comporta un rapido e radicale cambiamento: «Sono necessari tagli annuali di 1-2 miliardi di tonnellate di CO2 durante gli anni 2020 e oltre per evitare di superare il limite del riscaldamento globale compreso tra gli 1,5° C e ben al di sotto dei 2° C, l’ambizione dell’Accordo di Parigi delle Nazioni Unite – dicono al Global Carbon Project. – Dalla rivoluzione industriale, il mondo si è riscaldato di oltre 1° C a causa delle emissioni di gas serra delle attività umane».
Nel periodo 2016-2019, dei 36 Paesi ad alto reddito – Italia compresa – 25 hanno visto diminuire le proprie emissioni rispetto al 2011-2015, inclusi gli Stati Uniti (-0,7%), l’Unione Europea (-0,9%) e il Regno Unito (-3,6%). Le emissioni sono diminuite anche quando si tiene conto dell’impronta di carbonio delle merci importate prodotte in altri Paesi.
Anche 30 dei 99 Paesi a reddito medio-alto hanno visto diminuire le loro emissioni durante il 2016-2019 rispetto al 2011-2015, questo significa che le azioni per ridurre le emissioni sono in atto in molti Paesi del mondo. Il Messico (-1,3%) è un esempio notevole in questo gruppo di Stati, mentre le emissioni della Cina sono aumentate dello 0,4%, comunque molto meno della crescita annuale del 6,2% del 2011-2015.
Andrew conferma che «Gli sforzi per ridurre le emissioni di CO2 stanno iniziando a dare i loro frutti in un sottoinsieme di Paesi, ma le azioni non sono né su larga scala né abbastanza diffuse» e fa notare che «Le emissioni nel 2020 sono state inferiori poiché le infrastrutture per i combustibili fossili sono state utilizzate meno, non perché le infrastrutture sono state chiuse. Quando le infrastrutture per i combustibili fossili verranno nuovamente utilizzate, c’è il rischio di un forte rimbalzo delle emissioni nel 2021, come si è visto sulla scia della crisi finanziaria globale nel 2009».
Infatti, lo studio denuncia che «Nella maggior parte dei Paesi, gli investimenti post-Covid continuano a essere dominati in modo schiacciante dai combustibili fossili, in contraddizione con gli impegni sul clima, anche negli Stati Uniti e in Cina. L’Unione Europea, la Danimarca, la Francia, il Regno Unito, la Germania e la Svizzera sono tra i pochi Paesi che finora hanno implementato notevoli pacchetti di stimolo verdi con investimenti limitati in attività basate sui fossili».
Alcuni cambiamenti comportamentali avvenuti a causa della pandemia, come l’aumento del lavoro da casa nei Paesi più ricchi, possono persistere e potrebbero portare a cambiamenti sostenuti nelle emissioni. E il rapporto sottolinea che «Il numero crescente di leggi e politiche sul cambiamento climatico sembra aver svolto un ruolo chiave nel frenare la crescita delle emissioni nel periodo 2016-2019. Ora ci sono più di 2.000 leggi e politiche sul clima in tutto il mondo». I ricercatori ritengono improbabile che nel 2021 si torni ai precedenti livelli di emissioni di CO2, ma Andrew aggiunge: «A meno che la ripresa post Covid-19 non indirizzi gli investimenti verso le infrastrutture compatibili con il clima, le emissioni potrebbero superare quelle del 2019 entro un anno o due e bloccare le emissioni future per decenni. La sfida per i responsabili politici sarà stimolare l’economia attraverso la lente delle future tecnologie e dei comportamenti puliti, come l’energia rinnovabile, i veicoli elettrici, i trasporti pubblici e gli spostamenti a piedi e in bicicletta per i viaggi più brevi».
Uno degli autori dello studio, Robert Jackson dell’Earth system science department della Stanford University, è abbastanza ottimista: «Il crescente impegno dei Paesi a raggiungere le emissioni net zero entro decenni rafforza l’ambizione climatica necessaria alla COP26 di Glasgow. Una maggiore ambizione è ora sostenuta dai leader dei tre maggiori emettitori: Cina, Stati Uniti e Commissione europea. Gli impegni da soli non sono sufficienti. I Paesi devono allineare gli incentivi post-Covid con gli obiettivi climatici per questo decennio, sulla base di una solida scienza e di piani di attuazione credibili».
La Le Quéré ha concluso: «Questa pressante timeline è costantemente sottolineata dal rapido dispiegarsi di impatti climatici estremi in tutto il mondo».