Sversamento di idrocarburi dopo l’affondamento di una piattaforma in Adriatico?
Greenpeace: «Smantellare le vecchie piattaforme e fermare le nuove trivellazioni
[25 Gennaio 2021]
Il 5 dicembre 2020, nel Nord dell’Adriatico, pochi chilometri al largo della Croazia, è scomparsa della piattaforma per lo sfruttamento di idrocarburi e gas “Ivana D”, inizialmente dell’Eni e poi della compagnia petrolifera statale croata Industrija Nafte (INA). Si trattava di una piattaforma autonoma gestita da remoto e che si sarebbe inabissata a causa del forte vento e che, pochi giorni dopo l’affondamento, è stata ritrovata sul fondo del mare a poco più di 40 metri di profondità. Secondo il ministero o del mare, del traffico e delle infrastrutture croato, l’incidente non ha avuto conseguenze per l’ambiente.
Ma non la pensa così Greenpeace che oggi ha rilanciato un’indagine realizzata dall’associazione Cova Contro che «mostra come l’affondamento della piattaforma Ivana D, avvenuto nell’alto Adriatico lo scorso 5 dicembre, potrebbe aver causato un ingente rilascio di idrocarburi in un tratto di mare tra Italia e Croazia».
Alessandro Giannì, direttore delle campagne di Greenpeace Italia, sottolinea che «Le immagini satellitari raccolte da Cova Contro, relative alle ore successive all’incidente, mostrano la presenza di evidenti tracce rilevate dai sistemi satellitari di oil spill detection che, dapprima vicine alle piattaforme, successivamente si disperdono verso le coste croate e italiane. Chiediamo alle autorità preposte di verificare quanto accaduto e se ci siano stati fenomeni di inquinamento a seguito dell’affondamento della Ivana D».
Secondo il briefing di Greenpeace “Volano Trivelle”, «La piattaforma Ivana D era ai limiti del previsto periodo di esercizio: 20 anni. Nei mari italiani esistono tuttavia molte altre piattaforme che non solo sono assai più vecchie, ma che da tempo non producono nulla e che è urgente smantellare. Potrebbero non reggere a fenomeni meteomarini sempre più estremi che proprio la combustione di fonti fossili ha contribuito a generare, alterando il clima del nostro Pianeta».
Greenpeace ricorda che «Dopo anni di discussione (cui hanno partecipato le amministrazioni, ma anche associazioni ambientaliste e petrolieri), era anche stato messo a punto, dal Ministero Sviluppo Economico, un elenco di ben 34 impianti da smantellare. Elenco chiuso però in un cassetto e infine pubblicato dalle associazioni, stufe di essere prese in giro».
Per Greenpeace, «Di fronte a un quadro così allarmante è urgente avviare lo smantellamento delle vecchie piattaforme, imporre un monitoraggio più efficace delle altre piattaforme e impedire una ulteriore proliferazione delle trivelle, ovviamente non solo in Adriatico».
Giannì ricorda che: «A febbraio scadono i termini della moratoria che ha congelato ogni nuova attività estrattiva e di ricerca negli ultimi due anni. Greenpeace chiede con forza una norma che blocchi per sempre ogni nuova attività estrattiva in acque italiane. Abbiamo bisogno di una rivoluzione energetica che renda questo Paese cento per cento rinnovabile, creando posti di lavoro e tutelando clima e ambiente. Si può fare, è il momento di agire. Un divieto che non servirebbe solo a tutelare territori e mari italiani, ma soprattutto ad assicurare coerenza con la strategia di decarbonizzazione decisa dall’Europa e imposta dall’emergenza climatica in atto. Anche la Banca Europea degli Investimenti (BEI) ha capito che “il gas è fuori gioco”».
Greenpeace conclude: «Alla bufala del gas fossile amico del clima sembra ormai credere solo il nostro governo, che evidentemente continua a dar credito alle fandonie propalate da ENI e dagli altri petrolieri».