Spreco alimentare e marketing: volete vendere i prodotti alimentari imperfetti? Chiamateli brutti
Per i consumatori l’etichetta “brutto” risulta più sincera e attraente di quella “imperfetto”
[5 Marzo 2021]
Lo studio “From Waste to Taste: How “Ugly” Labels Can Increase Purchase of Unattractive Produce”, pubblicato sul Journal of Marketing da Sid Mookerjee, Yann Cornil e Joandrea (Joey) Hoegg dell’università della British Columbia, parte dalla constatazione che «I produttori e rivenditori di alimenti buttano via grandi quantità di prodotti perfettamente commestibili che non soddisfano gli standard di bellezza, contribuendo al problema ambientale dello spreco alimentare».
Per questo i tre autori canadesi hanno esaminato il motivo per cui i consumatori scartano i prodotti esteticamente poco attraenti e hanno testato una soluzione a basso costo e facile da applicare: «Enfatizzare il difetto estetico del prodotto attraverso l’etichettatura “brutta” (ad esempio, etichettare i cetrioli con difetti di spetto “Cetrioli brutti” sugli espositori dei negozi o nella pubblicità)».
7 esperimenti, 2 dei quali condotti tra gli scaffali di supermercati e gli altri online, hanno dimostrato che dimostrano che «L’etichettatura “brutta” corregge le aspettative distorte dei consumatori riguardo agli attributi chiave di prodotti poco attraenti, in particolare il gusto, e quindi aumenta la probabilità di acquisto».
Un altro risultato dello studio è che l’etichettatura “brutta” è più efficace se associata a sconti moderati e non a prodotti troppo scontati. Qualcosa di controintuitivo rispetto a quello che credevano i gestori dei supermercati che pensavano che fosse più efficace un’etichettatura dell’etichettatura alternativa che non evidenzia esclusivamente il difetto estetico, come il cartello “prodotti imperfetti” o “prodotto con personalità” al reparto frutta e verdura.
Come spiega Emma Bryce su Anthropocene, «La ricerca esistente mostra che i consumatori che esaminano i corridoi di un negozio di alimentari percepiscono i prodotti dalla forma strana o contrassegnati come di qualità inferiore, meno gustosi e meno sani. Questo fattore “ick” è qualcosa con la quale la maggior parte di noi può relazionarsi, ma ogni anno porta anche a perdite massicce e completamente inutili di prodotti buoni e freschi». Si stima che ogni anno i rivenditori statuinitensi buttino via qualcosa come 15,4 miliardi di dollari in prodotti commestibili, e molti sono prodotti che i consumatori di frutta e verdura non ritengono “belli”. Inoltre, i ricercatori evidenziano che fino al 30% circa dei prodotti agricoli non è ritenuto idoneo alla vendita nei supermercati, perché non soddisfano gli standard estetici.
Ma lo studio rovescia la cosa partendo dal fatto che le abitudini di acquisto dei consumatori sono anche un potente strumento per cercare di ridurre alcuni di questi sprechi catastrofici. E così i ricercatori hanno applicato alla frutta e verdura “brutte” un po’ del marketing manipolatorio che ci fa comprare solo prodotti standardizzati e “perfetti”.
Quello che è venuto fuori dai 7 mini-studi separati che hanno coinvolto ciascuno centinaia di partecipanti, è che «Più i rivenditori sottolineavano apertamente i difetti di frutta e verdura, più era probabile che gli acquirenti le acquistassero». In uno studio, gli acquirenti avevano il 20% di probabilità in più di acquistare prodotti etichettati chiaramente come “brutti” rispetto a quelli che acquistavano prodotti “difettosi”. E in un altro mini-studio ha scoperto che i prodotti etichettati “brutti” avevano molte più probabilità di essere messi nel carrello della spesa rispetto ai prodotti descritti più generosamente come “imperfetti”.
In queste sorprendenti scoperte c’è un aspetto psicologico, che ha guidato il lavoro dei ricercatori: sostengono che un linguaggio più vago e gentile usato per descrivere i prodotti brutti (come “imperfetto”) lascia più spazio al sospetto che ci siano altri difetti, invisibili ad occhio nudo, sui quali il consumatore dovrebbe essere cauto. Nel frattempo, etichettare un frutto come “brutto” indica chiaramente all’acquirente cosa c’è di “sbagliato” nel prodotto, lasciando meno spazio a speculazioni sul motivo per cui ha quell’aspetto o perché potrebbe essere più economico di altri tipi di frutta e verdura».
Nello studio si legge; «Proponiamo che enfatizzare deliberatamente la sgradevolezza del prodotto tramite l’etichettatura “brutto” agisca come un segnale che, oltre al suo aspetto “non c’è niente di sbagliato” nel prodotto». In sostanza, questa tattica di marl keting alternativo funziona dicendo all’acquirente che se riesce a superare i propri pregiudizi sull’attrattività dell’aspetto, avrà in cambio un prodotto perfettamente sano e gustoso e il più delle volte a un costo ridotto.
Un risultato che è stato supportato da alcuni degli altri mini-studi della ricerca, che hanno dimostrato che quando i rivenditori chiamavano “brutti” i loro prodotti, migliorava la percezione della qualità e del gusto da parte degli acquirenti, il che li rendeva più propensi ad acquistare frutta e verdura “difettosa”.
E gli studi confermano l’altro aspetto controintuitivo dello studio: quello del prezzo che svolge un ruolo di moderazione cruciale. I ricercatori hanno scoperto che quando i prodotti “brutti” erano fortemente scontati di circa il 60%, era meno probabile che venissero messi nel carrello rispetto a quelli con uno sconto più moderato di circa il 20%. Si tratta di un aspetto della stessa risposta psicologica riguardante l’etichettatura: quando il prezzo è molto basso, gli acquirenti possono insospettirsi che ci sia qualcosa di nascosto, di ina salubre e di cattivo.
Si tratta di risultati hanno ricadute immediate. I ricercatori hanno intervistato per un sondaggio più di 50 rivenditori e hanno scoperto che il 46% degli intervistati non applica nessuna etichetta a frutta e verdura imperfette, mentre circa il 33% ha utilizza il termine “imperfetto” per i prodotti dall’aspetto strano. Solo il 4% circa etichetta a frutta e la verdura diffamate come “brutte”. Secondo lo studio, «Queste scelte potrebbero avere conseguenze reali, compromettendo la disponibilità delle persone ad acquistare frutta e verdura alternative». Invece, essere un po’ più “sfacciati” con l’etichettatura potrebbe impedire che tonnellate di cibo finiscano in discarica e ridurre l’enorme contributo dello spreco alimentare alle emissioni di gas serra.
La Bryce commenta: «Potrebbe sembrare che ci siano cose migliori su cui concentrare la nostra attenzione rispetto alla formulazione precisa delle etichette dei negozi. Ma, come sostengono i ricercatori, i consumatori esercitano un potere immenso nel decidere il destino del cibo. Spingere gli acquirenti verso determinati prodotti potrebbe far pendere dalla parte giusta la bilancia sullo spreco alimentare, facendo aumentare la quota di prodotti che gli agricoltori possono vendere con sicurezza ai negozi e la probabilità che ciò che finisce nel negozio di alimentari, indipendentemente dal suo aspetto, alla fine diventi cibo, non spazzatura».
I ricercatori concludono: «Fare quel piccolo cambiamento potrebbe produrre grandi ramificazioni per il pianeta e la sua salute. Il nostro lavoro mostra come il marketing possa essere utilizzato per plasmare un “mondo migliore”, fornendo una soluzione vantaggiosa per tutti i soggetti interessati: dagli agricoltori e dettaglianti, ai consumatori e alla società in generale».