L’intervento della comunità scientifica su Nature Italy

Altro che divieti, gli scienziati italiani chiedono «un dibattito informato» sulla carne coltivata

Può avere un'impronta ambientale inferiore fino al 90% rispetto alle carni convenzionali, e potrebbe essere anche più salutare: in ogni caso rappresenta una scelta, non un obbligo

[26 Aprile 2023]

A livello globale, i sistemi alimentari rappresentano circa un terzo delle emissioni di gas serra, oltre ad essere tra i principali responsabili della perdita di biodiversità, dei consumi idrici e delle emissioni inquinanti in atmosfera. La carne coltivata – in Italia ribattezzata spregiativamente carne sintetica – può contribuire più sostenibile l’approvvigionamento di cibo?

Secondo la comunità scientifica italiana, che è intervenuta sul tema con due editoriali su Nature Italy, vale senza dubbio la pena discuterne. Il Governo Meloni ha invece approvato un disegno di legge – adesso all’esame del Parlamento – che vieta produzione e commercializzazione della carne sintetica, pur non potendo impedire un futuribile, eventuale import da altri Paesi Ue (l’Efsa, l’Agenzia europea per la sicurezza alimentare con sede a Parma, non ha ancora ricevuto richieste autorizzative in tal senso).

Posto che «sono ancora necessari diversi progressi per arrivare a produzione su grande scala in modo che la carne coltivata possa diventare un’alternativa credibile alla carne convenzionale», su Nature si spiega che l’unico effetto pratico del ddl sarebbe quello di bloccare la ricerca italiana su questo fronte.

Un paradosso, dato che «la carne coltivata fa parte della strategia Farm to fork dell’Ue e del Green deal» e che l’Unione europea sta già «dedicando nuovi fondi alla carne coltivata, attraverso bandi dedicati nel suo nuovo programma quadro di ricerca e innovazione Horizon Europe».

In pratica, di che si tratta? «La carne coltivata – si spiega su Nature Italy – si ottiene prelevando cellule adipose e muscolari da animali vivi e facendole crescere e differenziare in un brodo nutritivo all’interno di un bioreattore». Quest’ultimo rappresenta semplicemente «un ambiente sterile con temperatura e apporto di nutrienti controllati, non molto diverso dai fermentatori usati per la birra, il vino, il formaggio e lo yogurt». In aggiunta, i ricercatori «utilizzano poi supporti 3D o tecniche di bioprinting per imitare la consistenza di vari tagli di carne».

Vista da questa prospettiva, la contrapposizione tra “carne sintetica” e “carne naturale” si fa molto più sfumata, soprattutto tenendo conto che i moderni allevamenti hanno ben poco di “naturale”; persino l’allevamento in sé rappresenta una pratica culturale.

La carne coltivata «potrebbe addirittura risultare più salutare, in quanto il controllo sulle cellule e sui nutrienti del coltivatore potrebbe consentire, per esempio, una riduzione dei grassi saturi e un aumento dei livelli di antiossidanti».

Anche dal punto di vista ambientale i vantaggi potrebbero essere sensibili: «I detrattori sostengono che la carne coltivata non sia ecologica, ma le valutazioni del ciclo di vita (Lca) pubblicate nella letteratura scientifica dimostrano complessivamente il contrario4. Una recente Lca suggerisce che nel 2030 la carne coltivata avrà un’impronta ambientale inferiore fino al 90% rispetto alle carni convenzionali, anche tenendo conto degli ambiziosi obiettivi di rendere l’allevamento più sostenibile (Figura 1)».

In ogni caso la carne coltivata, se mai sarà disponibile in Italia, rappresenterebbe «solo una scelta in più per i consumatori e non potrebbe, secondo la legge dell’Ue, essere utilizzata in sostituzione della carne convenzionale senza una chiara indicazione sull’etichetta del prodotto (regolamento 2015/2283)».

Per questo i ricercatori italiani credono che la carne coltivata sia «un campo di studi promettente che merita di essere sostenuto, non soffocato […] Ci auguriamo – concludono su Nature Italy – che il Parlamento italiano riconosca l’importanza di fidarsi del processo scientifico, tecnico, sociologico e umanistico, piuttosto che imporre un divieto miope».