Curare le cicatrici mentali dei rifugiati per aiutarli a costruire nuove vite
Aiutare chi fugge da guerre, carestie e persecuzioni a superare i traumi psicologici rende più sicure anche le loro nuove patrie
[16 Luglio 2019]
Nonostante la maggioranza degli italiani sia convinta del contrario, la crisi dei rifugiati riguarda un po’ tutto il mondo e molti Paesi – anche europei – ne sono colpiti molto più del nostro. Secondo l’ultimo rapporto sui rifugiati dell’United Nations High Commissioner for Refugees (Unhcr). 70,8 milioni di persone sono state costrette con la forza ad abbandonare le loro case, 26 milioni sono diventate rifugiati, il numero più alto mai fregistrato, e nel 2018 ci sarebbero stati almeno altri 2,8 milioni di rifugiati e richiedenti asilo che hanno rischiato le loro vite per cercare la salvezza in altri Paesi, tra questi circa 580.000 hanno presentato richiesta di protezione internazionale nei Paesi dell’Unione Europea.
Nessuno sa davvero quante persone muoiono nei deserti, sulle montagne, nei fiumi e in mare nel tentativo di scappare da guerre e persecuzioni, ma anche per chi ha la fortuna di arrivare in un posto relativamente sicuro ha dovuto superare durissime esperienze, inimmaginabili per un occidentale che non conosce la guerra, la fame, la miseria, la schiavitù e la tortura che non lasciano solo ferite fisiche.
Corrado Barbui, psichiatra dell’Università di Verona, spiega su Horizon che «Studi epidemiologici suggeriscono che circa un terzo dei richiedenti asilo e dei rifugiati mostra una sorta di disagio psicologico clinicamente rilevante. Sono particolarmente vulnerabili perché sono esposti a fattori di stress prima, durante e anche dopo la loro migrazione. rispetto alla popolazione in generale, il disturbo da stress post-traumatico è fino a 10 volte più alto tra rifugiati e richiedenti asilo».
Barbui sta coordinando il progetto “Refugee Emergency: DEFining and Implementing Novel Evidence-based psychosocial interventions2 (Re-Define), al quale oltre all’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) partecipano anche università e istituzioni di Olanda, Germania, Austria, Turchia, Danimarca, Finlandia e Regno Unito, che punta ad «aiutare a ridurre gli alti livelli di disagio psicologico che si riscontrano in queste popolazioni vulnerabili» utilizzando «Un innovativo intervento di gestione dello stress basato sulla terapia cognitivo comportamentale, una forma efficace di consulenza che aiuta le persone a gestire i loro problemi cambiando il modo in cui pensano e si comportano».
Barbui sottolinea che «Si tratta di un intervento psicosociale a bassa intensità con lo scopo di prevenire lo sviluppo di condizioni di salute mentale. E’ un intervento di autoaiuto, quindi non ci sono medici, né psicologi né professionisti che lo forniscono».
Si tratta di Self Help Plus (SH+), sviluppato dall’Oms e studiato, con risultati promettenti, in contesti a basso reddito, ma Barbui aggiunge che «La questione dei rifugiati e dei richiedenti asilo è diventata una vera sfida anche nei Paesi ad alto reddito, quindi volevamo vedere se anche lì poteva essere utile». Per farlo, come spiega lo studio “Effectiveness and cost-effectiveness of Self-Help Plus (SH+) for preventing mental disorders in refugees and asylum seekers in Europe and Turkey: study protocols for two randomised controlled trials”, pubblicato su BMJ Open, Re-Define sta conducendo trials in cinque Paesi europei considerati ad alto reddito: Italia, Austria, Finlandia, Germania, Regno Unito e Turchia, ai quali prendono parte 1.200 persone, la metà in Turchia, uno dei Paesi dove arrivano più rifugiati provenienti dalla Siria. Horizon evidenzia che «I partecipanti partecipano a sessioni di gruppo con 10-15 partecipanti. Sono guidati da un corso audio pre-registrato e da materiale scritto, entrambi nella loro lingua madre, il che li incoraggia a parlare dei problemi che stanno avendo e li aiuta a identificare i modi per risolverli. Ogni gruppo completa cinque sessioni di due ore per un periodo di cinque settimane ed è supervisionato da un facilitatore, che è un altro rifugiato o un ex richiedente asilo formato per supervisionare le discussioni».
Barbui fa notare che «Un aspetto importante dell’approccio è stato quello di evitare di medicalizzarlo poiché lo stigma che è coinvolto potrebbe impedire la partecipazione di molti rifugiati. Facciamo qualche screening preliminare per identificare le persone che potrebbero avere problemi di salute mentale, ma il nostro intervento è più per la prevenzione, quindi non vogliamo medicalizzare coloro che soffrono di sofferenza psicologica».
In collaborazione con Oms e Croce Rossa, finora i trials sono stati realizzati per rifugiati e richiedenti asilo siriani, afgani e pakistani, con versioni di Self Help Plus in arabo, Dari e Urdu. C’è anche una versione in Pidgin English per i nigeriani.
Anche se il team sta ancora valutando i risultati dei trials, Barbui dice che «Il progetto è stato ben accolto e spero che il numero di lingue possa essere ampliato in futuro». Il team spera anche che in futuro ci sarà una versione online perché i partecipanti possano accedere con i loro telefoni cellulari. «Vorremmo vedere questo intervento diventare efficace per rifugiati e richiedenti asilo a livello globale», conclude Barbui.
Infatti, aumentare questo tipo di aiuto per milioni di rifugiati e richiedenti asilo in tutto il mondo rappresenta una sfida particolare e aumenta sicuramente la sicurezza delle comunità ospitanti, ma spesso non ci sono abbastanza professionisti della salute mentale disponibili e in Italia, con le ultime leggi salviniane contro le ONG, ce ne saranno sempre meno.
L’OMS ha sviluppato anche Problem Management Plus (PM +) che è già stato testato e implementato in alcune zone del Pakistan e del Kenya per aiutare le persone che sono state colpite dalla violenza, ma con quasi 6,7 milioni di rifugiati fuggiti dalla sola guerra in Siria, c’è un disperato bisogno di tradurre e adattare queste risorse ad altri contesti. E’ quel che sta tentando di fare il progetto STRENGTHS negli 8 Paesi dove c’è stato il più grande afflusso di rifugiati siriani: Turchia, Libano, Giordania, Egitto, Germania, Svizzera, Olanda e Svezia.
La coordinatrice di questo progetto, la psicologa clinica olandese Marit Sijbrandij della Vrije Universiteit Amsterdam, sottolinea che «I livelli di esposizione a eventi traumatici sono molto alti tra i rifugiati siriani. Spesso, in fuga, accadono molte cose perché è molto rischioso. Percorrono lunghe distanze a piedi o compiono pericolosi attraversamenti in mare. Ci sono episodi di abuso sessuale. E quando entrano in un nuovo Paese o vivono nei campi profughi, sono esposti a molte difficoltà quotidiane che li mettono a maggior rischio di avere problemi di salute mentale».
Proprio come SH+, PM + si basa sulla terapia cognitivo comportamentale, ma, per aiutare le persone che stanno già sperimentando problemi di salute mentale, utilizza sessioni one-to-one leggermente più intense. Questo tipo di approccio può essere difficile da attuare con un gran numero di persone, specialmente nei Paesi in cui i professionisti della salute potrebbero aver bisogno di un interprete per parlare con coloro che stanno cercando di aiutare. STRENGTHS sta invece formando altri rifugiati siriani, che sono aiutanti non professionisti, a fornire il servizio. La Sijbrandij spiega ancora: «Ad esempio, nei Paesi Bassi istruiamo i rifugiati siriani ai quali in passato è stato già fornito un sostegno psicosociale o che i Siria sono stati insegnanti o che hanno capacità empatiche molto forti. L’approccio non si concentra sui disturbi individuali, ma cerca di affrontare i sintomi generali della sofferenza come i problemi del sonno, l’ansia e la depressione. In oltre cinque sessioni, i partecipanti sono incoraggiati a trovare modi per cambiare il proprio comportamento per migliorare la propria situazione. Riattivare di nuovo la gente è uno dei componenti chiave nella lotta alla depressione».
Il programma incoraggia rifugiati e richiedenti asilo a costruire anche reti sociali alle quali possono chiedere aiuto nella vita di tutti i giorni e insegna loro a praticare tecniche di rilassamento. Si sta progettando una versione di PM+ appositamente adattata ai bambini e, insieme all’Oms, anche una versione per smartphone.
La Sijbrandij conclude: «Sappiamo che alcune persone non potranno mai accedere a questo tipo di supporto psicosociale faccia a faccia, ma potrebbero preferire farlo attraverso il loro smartphone. Molti rifugiati siriani hanno gli uno smartphone e per loro sono già una sorta di ancora di salvezza».