Curva climatica di Laffer: meno tasse vogliono dire più tasse, e meno emissioni

Le politiche climatiche basate su tasse o permessi sono necessarie e insufficienti a livello planetario. Tuttavia, una riflessione sulle esenzioni va fatta

[8 Maggio 2023]

Noi italiani la sappiamo lunga sulle tasse. Le evadiamo, le paghiamo con piacere, cerchiamo di indebitarci per passarle alle future generazioni. In poche parole, abbiamo una relazione molto complicata con ciò che alimenta le nostre istituzioni. Le tasse sono un elemento essenziale del nostro sistema economico, ma sono anche strumenti per incentivare o disincentivare comportamenti nocivi.

Il monopolio fiscale sui tabacchi dovrebbe disincentivare il consumo delle sigarette e altri processati nocivi. Le accise dovrebbero ridurre la dipendenza dall’uso delle macchine. Ovviamente da italiani, sappiamo benissimo che la ragione è un’altra – e da economista vi dico, è vero.

Lo stato tassa beni e servizi dai quali è sicuro di poter cavare soldi. Così come le tasse sul lavoro e sulla proprietà. Questo ragionamento funziona perché le persone non possono reagire a queste tasse velocemente. Da ex fumatore ed ex disoccupato, posso dirvi che è probabilmente più facile smettere di lavorare e non pagare l’Irpef che smettere di fumare e non pagare le accise, per dire. Ci sono situazioni, tuttavia, dove gli “agenti economici” reagiscono alle tasse, modificando il proprio comportamento. Questo è l’inquinamento.

Sappiamo che gli stati e le istituzioni europee usano due politiche per gestire le emissioni di gas serra. La forma più semplice è la tassa: si paga per il volume di emissioni per quantità di input acquistato, tipo le accise sulla benzina.

La forma più raffinata è l’asta dei permessi, dove le aziende delle industrie energivore, energia e compagnie aree devono comprare dall’Unione europea permessi per ciascuna unità di CO2-equivalente emessa. Questa politica è stata estremamente rilevante nella riduzione delle emissioni dal 2005 a oggi. Una componente di questo meccanismo è il “cap”, ovvero un limite di permessi che si possono usare ogni anno; questo limite si riduce automaticamente ogni anno secondo un tasso deciso dalle istituzioni europee.

Come stabilito dal Fit-for-55, il tasso di riduzione verrà aumentato per raggiugere gli obbiettivi climatici. Quindi le istituzioni nazionali (per le accise) e internazionali (per le quote d’asta) possono incrementare (rilassare) la stringenza delle politiche climatiche. Per esempio, lo stato può imporre accise più alte (basse), mentre l’Unione europea può accelerare (rallentare) la diminuzione del cap.

Insieme a Simone Borghesi (direttore della Scuola fiorentina della regolamentazione climatica) e  Anastasios Xepapadeas (professore emerito di Bologna e Atene) abbiamo messo a punto un modello basato sulla teoria dei giochi, per spiegare come le istituzioni possono pianificare le politiche climatiche al fine di massimizzare i ritorni fiscali e i benefici ambientali.

Nel modello siamo partiti dal presupposto che le istituzioni hanno il potere non solo decidere quanto le aziende paghino per l’inquinamento, ma anche quali aziende dovessero pagare, conoscendo in anticipo la tendenza ad evitare di pagare le tasse.

Le esenzioni non sono una dinamica estranea per le politiche climatiche: basti pensare alle forze armate e di sicurezza. Un’altra fonte impattante sul clima ed esente tasse proviene degli aerei di linea e i jet privati, il cui consumo di cherosene in Italia equivaleva nel 2019 a 2.3 mld di litri[1]. Lo stato sta rinunciando a un volume di tassazione equivalente a circa 1 mld di euro l’anno in questo settore. Ma perché lo stato lascerebbe certi settori completamente scoperti da tasse mentre altri li tasserebbe estensivamente?

Il nostro lavoro riprende in parte le teorie di Arthur Laffer, economista dell’era reaganiana. Laffer aveva compreso che il livello ottimale di tassazione è sempre tra un valore situato tra lo zero e il 100%. Inoltre, aveva notato che alti livelli di tassazione producevano proventi fiscali uguali o addirittura inferiori a quelli derivanti da imposizioni fiscali più leggere. Perché?

Tutte le persone e le aziende che possono evadere o eludere il fisco lo fanno quando le tasse sono troppo alte. Lo stato, quindi, dovrebbe studiare un peso tributario che sia effettivamente sostenibile, identificando un valore che non dissuada l’attività economica. Una teoria semplice ed intuitiva: la leggenda vuole che Laffer la spiegò a cena col presidente Reagan usando un tovagliolo ed una penna. Probabilmente l’immagine che il presidente americano si è trovato di
fronte è stata molto simile alla figura 1.

Dal nostro studio abbiamo notato come, partendo dai principi di economia ambientale nel definire il comportamento delle aziende, lo stato possa avere un interesse non solo ambientale, ma anche fiscale nel garantire un livello di esenzione delle politiche climatiche.

In primo luogo, trattiene le aziende e le attività all’interno della giurisdizione, facendo sì che altre politiche possono essere implementate. Secondo, incrementa la competizione con le aziende coperte da politiche climatiche. Questo implica per essere equamente competitive, le aziende affette da politiche climatiche debbano compensare le proprie emissioni e adottare tecnologie decarbonizzanti, di fatto eludendo le tasse. Va notato che il nostro approccio è valido in situazioni dove il numero delle aziende è tendenzialmente rigido, mercati dove il costo di uscita ed entrata sono talmente alti da rendere impossibile la riallocazione.

Le politiche climatiche hanno come primo obbiettivo quello ambientale, non quello fiscale, ma non dobbiamo illuderci. Se lo stato o chi per lui impone una tassa, cerca di rendere quel canale di entrate il più produttivo possibile.

Il nostro lavoro indica che c’è un livello di tassazione delle emissioni ottimale per ridurre al meglio le emissioni e generare sufficienti proventi fiscali. Se troppo alte, le persone e aziende smettono di inquinare ma anche di produrre beni e servizi, riducendo non solo il benessere totale, ma anche i proventi fiscali. Se troppo basse, lo stato non percepisce ritorni fiscali né tantomeno protegge l’ambiente, come forse è il caso del cherosene.

Con questo non vogliamo dare “liberi tutti”: le politiche climatiche basate su tasse o permessi sono necessarie e insufficienti a livello planetario. Tuttavia, una riflessione sulle esenzioni va fatta per dirimere la nebbia prodotta da alcuni agenti sul tema. Ad esempio, le emissioni provenienti dal consumo del carburante aereo in Italia nel 2019 potrebbero essere state attorno alle quindici milioni tonnellate, equivalenti a circa il 4.5% delle emissioni di gas serra in Italia[2], sempre esenti da accise.

[1] Calcolato dall’autore con un fattore di conversione di 1,223 litri per tonnellata, presumendo un cherosene depositato a 60 °F con una densità di 817.15 kg/m³. Fonte:MISE

[2] Fonti: fattore di conversione:ISPRA; Emissioni gas serra totali italiane: Worldbank