La dura vita di docenti e studenti universitari nell’Afghanistan dei talebani

Per le donne nelle università insegnamento limitato, non possono insegnare agli uomini o frequentare le stesse lezioni con loro

[7 Giugno 2022]

A quasi un anno dalla presa del potere dei Talebani, dopo la sconfitta e la rovinosa fuga delle truppe Usa/Nato,  in Afghanistan la vita dei docenti universitari sta diventando sempre più insopportabile  e per le studiose e le studentesse donne ormai è diventata impossibile.

Come ricorda Smriti Mallapaty in un’inchiesta pubblicata su Nature, «Da quando i talebani hanno preso il potere lo scorso agosto, il Paese è precipitato in una crisi umanitaria. Molti afgani non ricevono cibo a sufficienza; c’è un conflitto continuo tra i talebani e i gruppi rivali e sono diffusi focolai di malattie infettive. Oltre a queste sfide, i membri delle facoltà non hanno tempo o finanziamenti per fare ricerca e devono far fronte alla riduzione degli stipendi e alla scomparsa delle libertà accademiche. Per le studiose, la vita sotto i talebani significa che la maggior parte deve indossare indumenti che coprano la testa e il corpo e non può insegnare agli uomini. E le studentesse non possono frequentare le lezioni con uomini e non possono ricevere insegnamentida loro».  Una studentessa che, come la maggior parte degli accademici intervistati da Nature dentro e fuori l’Afghanistan,  ha chiesto di rimanere anonima, ha detto alla Mallapaty: «I talebani stanno peggiorando la situazione per le donne».

Gli scienziati afghani  dicono che criticare le autorità talebane metterebbe a grave rischio le loro famiglie rimaste nel Paese o la loro carriera. Molti accademici con legami internazionali o risorse finanziarie sufficienti hanno lasciato l’Afghanistan e molti di quelli rimasti stanno cercando di farlo.  Un ex professore di Kabul, fuggito dopo l’arrivo dei talebani, spiega che «Con il precedente governo, anche se abbiamo avuto molti problemi, tra cui discriminazione e corruzione, almeno speravamo che tutto potesse andare meglio. Ora abbiamo perso la speranza».

Dopo mesi di chiusura, le università pubbliche afghane hanno riaperto a febbraio e marzo, ma in condizioni molto diverse: i talebani hanno nominato loro rappresentanti per gestire le università e il 5 maggio il ministro dell’Istruzione superiore ha inviato lettere con le quali ordina a questi rappresentanti di condurre indagini nelle facoltà per individuare eventuali membri del personale mettono in dubbio le nuove regole dell’emirato islamico. Secondo Ramin Mansoory, studioso di diritto ed ex consigliere del governo provinciale afgano, fuggito in Polonia, «Con la perdita delle libertà accademiche è come vivere in una gabbia».

Inoltre, i ricercatori devono dedicare gran parte del loro tempo all’insegnamento, a molti è stato ridotto lo stipendio di oltre un terzo e non sempre vengono pagati con puntualità. I fondi per la ricerca che prima arrivavano da collaborazioni internazionali sono congelati e l’esodo degli accademici ha imposto un maggior carico di lavoro a c quelli che sino rimasti in Afghanistan.   ulteriore onere a coloro che sono rimasti indietro.

Il fisico Baktash Amini, coordinatore per l’Afghanistan del programma Physics Without Frontiers dell’Abdus Salam International Center for Theoretical Physics (ICTP) di  Trieste e che è stato anche docente all’università di Kabul fino a che i talebani non hanno preso il potere, conferma: «I miei colleghi insegnano più che mai. Circa 7 dei 17 docenti della facoltà di fisica dell’università hanno lasciato il Paese». Altri studiosi riferiscono che le loro facoltà e centri di ricerca hanno il 20-40% in meno di personale rispetto a prima che i talebani prendessero il potere.

Nel settembre 2021 il ministro dell’Istruzione superiore dei talebani ha detto che  nell’Afghanistan di oggi  i dottorati di ricerca e i master non sono apprezzati. Amini, che probabilmente a partire da luglio studierà per un dottorato di ricerca all’università tedesca di Friburgo e lavorerà sulla fisica dei bosoni di Higgs e sulla fisica di punta utilizzando l’esperimento ATLAS al CERN, il laboratorio europeo di fisica delle particelle di Ginevra, commenta: «Quando ho sentito questo, ero così scoraggiato, perché ho lavorato così tanto per così tanto tempo?»

Ma quel che devono subire gli uomini che insegnano e studiano non è niente rispetto a quel che devono affrontare le donne: la settimana accademica è stata suddivisa in modo che gli studenti maschi e femmine ricevano insegnamenti separati, per tre giorni ciascuno. Gli accademici afghani hanno detto a Nature che «Questa segregazione e la carenza di docenti donne ha ridotto la qualità dell’istruzione, in particolare per le donne. Alcune materie sono state addirittura sospese per le studentesse». Donne (e anche uomini) appartenenti a minoranze etniche, come gli Hazara e i Tagiki, dicono di venire perseguitate. Alcuni hanno affermato di essere stati licenziati senza un motivo valido e di non sentirsi sicuri a lavorare nell’ambiente attuale. Molti hanno scelto di partire. Anche sotto il governo precedente le minoranze etniche e religiose subivano discriminazioni, ma con l’arrivo dei talebani la discriminazione è aumentata».

«La ricerca non è più una priorità», dice un medico e ricercatore che si occupa di salute pubblica e che ora vive a Teheran, la capitale dell’Iran, e che denuncia che nella sua città natale di Mazar-i-Sharif c’è  «Una situazione di fame diffusa, frequenti esplosioni e disagio psicologico». Questo medico ha completato il suo master a Teheran ed è stata selezionata per un posto di ricerca in un istituto statunitense, ma è in attesa del visto.

Migliaia di studiosi afghani sono fuggiti nei vicini Iran e Pakistan e si sono rivolti a organizzazioni che aiutano gli accademici a trovare posti di lavoro in altri Paesi ma, secondo i dati raccolti da Scholars at Risk (SAR), Institute of International Education’s Scholar Rescue Fund e Council for At-Risk Academics (Cara) e pubblicati da Nature,  ci è riuscito meno del 10%  e «Ancora meno sono riusciti a raggiungere le istituzioni ospitanti, rallentati dalla difficoltà di ottenere documenti, compresi passaporti e visti, per sé e per i familiari». Rose Anderson, direttrice della SAR di New York City, sottolinea che «I tempi di attesa per il visto continuano ad essere un problema per molti studiosi afgani». Eppure, come evidenzia James King, direttore dello Scholar Rescue Fund di New York City, «Molti istituti di istruzione superiore desiderano ospitare studiosi afgani, ma la crisi in Ucraina sta mettendo a dura prova le nostre già limitate risorse e capacità». Secondo Stephen Wordsworth, direttore esecutivo di Cara a Londra, «Le istituzioni stanno creando nuovi posti per studiosi ucraini, non reindirizzando gli impegni esistenti. Il modo in cui le due crisi si sono avvicinate così tanto ha galvanizzato ulteriormente i settori dell’università e della ricerca».

Zainab Nazari, fisico dell’ICTP e originario dell’Afghanistan, conclude: «Ma la maggior parte degli studenti e degli studiosi in Afghanistan non può andarsene. Hanno bisogno di supporto finanziario e mentale. Le persone sono così senza speranza in questa situazione».