Oltre il 90% dell’acquacoltura globale è a grave rischio a causa dei cambiamenti ambientali

La vulnerabilità degli alimenti acquatici ai cambiamenti ambientali è stata ampiamente sottovalutata, con Usa, Cina e Thailandia complessivamente più a rischio

[27 Giugno 2023]

Il  nuovo studio “Vulnerability of blue foods to human-induced environmental change”, pubblicato su Nature Sustainabilityda un team internazionale di ricercatori, parte da una preoccupazione: «Molti dei maggiori produttori mondiali di cibo acquatico sono altamente vulnerabili ai cambiamenti ambientali indotti dall’uomo, con alcuni dei Paesi a più alto rischio in Asia, America Latina e Africa che dimostrano la più bassa capacità di adattamento» e dimostra che «Oltre il 90% della produzione globale di cibo “blu”, sia nella pesca di cattura che nell’acquacoltura, affronta rischi sostanziali dovuti ai cambiamenti ambientali, con diversi Paesi leader in Asia e negli Stati Uniti che sono destinati ad affrontare le maggiori minacce alla produzione».

Lo studio è uno dei 7 articoli scientifici pubblicati dal Blue Food Assessment (BFA) come parte di un lavoro globale per informare la futura sostenibilità dei cibi acquatici e gli autori hanno prodotto la prima analisi globale in assoluto dei fattori di stress ambientale che influiscono sulla quantità di produzione e sulla sicurezza degli alimenti blu in tutto il mondo, classificando per la prima volta I Paesi in base alla loro esposizione ai principali fattori di stress. Sono stati esaminati un totale di 17 fattori di stress, tra I quali fioriture algali, innalzamento del livello del mare, variazioni di temperatura ed esposizione ai pesticidi.

Uno dei principali co-autori dello studio Benjamin Halpern dell’università della California Santa Barbara e direttore del National Center for Ecological Analysis and Synthesis, evidenzia che «”I fattori di stress ambientale non si preoccupano dei confini nazionali. Gli stressanti vengono spostati dall’aria, dall’acqua, dalle specie e dagli esseri umani, collegando la terra al mare ed ecosistema a ecosistema».

Lo studio sottolinea che sistemi di produzione di alimenti blu altamente vulnerabili si cambiamenti climatici ci sono in tutti i continenti, compresi alcuni dei maggiori produttori mondiali come Norvegia, Cina e Stati Uniti, ma che «Troppo spesso manca la  comprensione della complessità dei fattori di stress che causano il cambiamento ambientale».

Una delle principali co-autrici dello studio, la cinese Ling Cao dello State Key Laboratory of Marine Environmental dell’università di Xiamen, ricorda che «Abbiamo solo scalfito la superficie nella nostra comprensione di come sono collegati tra loro i fattori di stress ambientale e di come e possono avere un impatto negativo sulla produzione e sulla sicurezza dei cibi blu. Comprendere la complessità di questi fattori di stress e i loro impatti a cascata sarà essenziale per sviluppare strategie di adattamento e mitigazione di successo».

Lo studio indica nell’’invasione di specie aliene, nell’eutrofizzazione o proliferazione algale, nel riscaldamento degli oceani e nell’innalzamento del livello del mare le principali minacce alla produzione di cibo blu negli Usa, con la pesca di acqua dolce e marina che sta già affrontando rischi sproporzionatamente elevati.

Dato che la Cina è il più grande produttore di cibo blu, la sua acquacoltura d’acqua dolce è fortemente esposta all’eutrofizzazione interna e a gravi eventi meteorologici, Inoltte, gli autori dello studio sostengono  che «Si dovrebbe prestare particolare attenzione ai Paesi che affrontano un’elevata esposizione ai cambiamenti ambientali ma non possiedono un’adeguata capacità di adattamento, tra cui Bangladesh, Eswatini, Guatemala, Honduras e Uganda».

Lo studio include anche un ampio dataset di dati esteso che classifica i Paesi di tutto il mondo in base all’esposizione dei loro sistemi di produzione alimentare blu ai vari fattori di stress ambientale e l’Italia appare molte volte in “rosso” nelle diverse cartografie.

Per quanto riguarda i sistemi di produzione, lo studio rileva che «La pesca marina è generalmente più vulnerabile ai fattori di stress legati al clima, in particolare l’aumento delle temperature e l’acidificazione, mentre l’acquacoltura è più suscettibile agli effetti di malattie e ipossia o bassi livelli di ossigeno».

Un’altra co-autrice principale, Rebecca Short dello Stockholm Resilience Centre, aggiunge: «Sebbene abbiamo compiuto alcuni progressi con il cambiamento climatico, le nostre strategie di adattamento per i sistemi alimentari blu che affrontano il cambiamento ambientale sono ancora poco sviluppate e necessitano di urgente attenzione».

Tra le principali raccomandazioni dello studio c’è un appello per una maggiore collaborazione transfrontaliera e per strategie di adattamento che riconoscano che «Gli ecosistemi su cui si basa la produzione di cibo blu sono altamente interconnessi, con il cambiamento ambientale in un’area che ha potenziali effetti a catena altrove».

Gli autori dello studio chiedono anche «Una diversificazione della produzione di cibo blu nei Paesi ad alto rischio per far fronte all’impatto del cambiamento ambientale, a meno che non vengano adottate strategie di mitigazione e adattamento sufficienti» e lo studio conclude sottolineando «L’urgente necessità di un maggiore coinvolgimento delle parti interessate nella comprensione, monitoraggio e mitigazione delle pressioni sui sistemi di produzione alimentare blu. La conoscenza indigena sarà fondamentale per la pianificazione strategica e le politiche per mitigare e adattarsi ai cambiamenti ambientali, in particolare per la pesca artigianale e i Paesi foertemente dipendenti dalla pesca marittima, come i piccoli Stati insulari in via di sviluppo (SIDS)».