Qual è il cibo blu più verde? Bivalvi, alghe e alcune carpe di allevamento
Gli alimenti acquatici hanno un grande potenziale non sfruttato per diete più sostenibili
[19 Ottobre 2021]
Lo studio “Environmental performance of blue foods”, pubblicato su Nature da di team internazionale di ricercatori guidato da Jessica Gephart (American University), Patrik Henriksson (Stockholm Resilience Centre e WorldFish) Robert Parker (Dalhousie University e Aquaculture Stewardship Council), Alon Shepon (Tel Aviv University e Harvard T. H. Chan School of Public Health) ha mostrato un significativo potenziale inespresso per l’acquacoltura di diventare più sostenibile, aggiungendosi al numero di specie che già esercitano una pressione limitata sull’ambiente, come alghe, bivalvi e alcune carpe.
Per quanto riguarda bivalvi e alghe, che non hanno bisogno di essere alimentati, la loro autosufficienza conferisce loro un beneficio per l’ecosistema, perché possono rimuovere dall’acqua l’inquinamento da azoto e fosforo, solitamente originato dall’agricoltura terrestre. Inoltre, i bivalvi in particolare, hanno alcuni dei valori nutrizionali più alti di tutti gli alimenti blu disponibili, presentando un chiero vantaggio su tutti i fronti.
Lo studio, che fa parte del Blue Food Assessment, un’iniziativa internazionale congiunta che riunisce oltre 100 scienziati provenienti da più di 25 istituzioni, è la prima valutazione nel suo genere produce profili ambientali per l’intera gamma di alimenti acquatici, o blu, per aiutare a portare a una produzione alimentare e a diete più sostenibili.
La Gephart spiega che «Con l’aumento della domanda di alimenti blu in tutto il mondo, abbiamo bisogno di una migliore comprensione del confronto tra le pressioni ambientali in questo gruppo eterogeneo di alimenti, in modo da poter garantire un’alimentazione non solo nutriente, ma anche sostenibile».
Il team di ricercatori è riuscito a produrre la valutazione finora più standardizzata delle pressioni ambientali derivanti dalla produzione di cibo blu e che copre quasi tre quarti della produzione globale, attingendo a studi che riportano nel complesso i dati di oltre 1.690 allevamenti ittici e 1.000 singoli dati sulla pesca in tutto il mondo.
All’American University dicono che lo studio evidenzia che «Le alghe e i bivalvi d’allevamento, come cozze e ostriche, producono il minor numero di emissioni di gas serra e nutrienti e utilizzano meno terra e acqua. Anche la pesca di cattura comporta poche emissioni di nutrienti e un uso limitato di terra e acqua, ma le emissioni di gas serra variano da quelle relativamente basse, come per le sardine e il merluzzo, a quelle relativamente alte per i pesci piatti e le aragoste, rispetto al pesce d’allevamento».
Per la pesca in mare aperto, dove il consumo di carburante è la principale preoccupazione, i ricercatori dicono che «Il passaggio a attrezzi più efficienti (come le reti da traino) che si traduce in un minor consumo di carburante, potrebbe portare a riduzioni delle emissioni fino al 61% e limitare potenzialmente anche i danni all’ecosistema. Fare in modo che i pescherecci utilizzino combustibili a basse emissioni è un’altra strada, sebbene tale soluzione sia ancora su un orizzonte relativamente lontano».
I pesci di allevamento comunemente consumati, come il salmone e la carpa, superano gli altri alimenti blu d’allevamento in diversi indicatori ambientali, mentre la maggior parte degli alimenti blu supera il pollo, che produce pressioni ambientali simili a quelle della tilapia. L’analisi ha anche prodotto alcuni risultati sorprendenti, come il fatto che i gamberi d’allevamento sono risultati meno impattanti di quelli catturati in natura. Inoltre, i consumatori che cercano di fare la differenza mangiando salmone pescato in natura piuttosto che allevato potrebbero sprecare i loro sforzi: come la trota, questo pesce sembra avere la stessa impronta ambientale sia di allevamento che di cattura.
I ricercatori sottolineano che «Questa nuova serie di metriche standardizzate può essere utilizzata per confrontare gli impatti ambientali degli alimenti blu per orientare la produzione futura verso una riduzione delle emissioni e dell’uso delle risorse». Lo studio ha anche evidenziato il significativo potenziale di molti sottosettori, come la carpa e il cefalone, «Per migliorare le loro prestazioni ambientali attraverso una migliore gestione dell’allevamento, ridotti rapporti di conversione dei mangimi e interventi tecnologici innovativi». Come spiega Emma Bryce su Anthropocene, «Evidenziando i numerosi punti deboli nella produzione di alimenti blu, i ricercatori chiariscono anche quali sono le opportunità per rendere più sostenibile questa fonte di proteine alimentari sempre più influente. Come spesso accade con il cibo, la più grande opportunità risiede nel cambiamento nella dieta, in questo caso, aumentando il nostro appetito per bivalvi e alghe a basso impatto. Ma mentre gli appetiti si adattano, ci sono anche molti cambiamenti da apportare al modo in cui alleviamo e catturiamo il pesce. L’opportunità più evidente sta nel mangime. Fondamentale, trovare modi per aumentare il rapporto di conversione del mangime (usando meno mangime, in modo più efficiente, per produrre più pesce) porterebbe vantaggi sostanziali. I ricercatori stimano che la riduzione del 10% della quantità di mangime applicata in acquacoltura potrebbe ridurre tutti i fattori di stress ambientale associati all’alimentazione dei pesci – uso del suolo, uso dell’acqua, emissioni – tra l’1 e il 24%. Se gli allevamenti ittici passassero anche a mangimi provenienti da allevamenti deforestation-free, le emissioni associate all’alimentazione dei pesci diminuirebbero fino al 50%. Oltre a questo, anche fonti di mangime alternative come mangimi a base di insetti e alghe hanno un grande potenziale per ridurre gli impatti».
Anche la pesca di cattura ha il potenziale per ridurre le emissioni di gas serra attraverso una migliore gestione e l’ottimizzazione dei tipi di attrezzi.
Secondo Henriksson, «La maggior parte dei sistemi di acquacoltura non ha realizzato i livelli di efficienza visti nei sistemi di produzione terrestre, lasciando notevoli opportunità di ottimizzazione e miglioramento dell’efficienza e della sostenibilità».
Il team di scienziati è convinto che questa ricerca abbia «colmato le lacune presenti in studi precedenti sugli stress ambientali associati alla produzione alimentare, che spesso escludono i cibi blu, e quando i cibi blu sono inclusi, sono solitamente aggregati, trascurando la vasta gamma di specie che appartengono ai cibi blu. Lo studio consentirà infine alle imprese, ai certificatori, alle ONG e ad altre parti interessate, compresi i consumatori, di prendere decisioni più informate su come supportare gli alimenti blu sostenibili, contribuendo anche a evidenziare la ricca diversità e varietà del settore alimentare blu».
Ma questi cambiamenti richiederanno tempo, politiche attive e sussidi per arrivare a forme più sostenibili di produzione di cibo blu. Ma a differenza dell’agricoltura terrestre, i cui danni vengono da così lontano che è difficile eliminarli, con i cibi blu la buona notizia è che abbiamo la possibilità di intervenire ora e arginare il danno prima che arrivi all’apice, soprattutto in acquacoltura, perché è ancora un settore in via di sviluppo. ùI ricercatori concludono: «Ora, la comunità globale si trova di fronte a una finestra di opportunità unica per guidare l’espansione verso la sostenibilità».