Albania, il Paese vola alto e scommette sull’agricoltura
La varietà di prodotti, sopravvissuta all’autarchia comunista, oggi sfida il neoliberismo
Una terra dai colori forti, dove le mezze misure non sono di casa. Di montagne e mare, di guerrieri e contadini, di querce e di melograni. Capace di generare con George Skanderberg, nel ‘400, l’eroe più grande della resistenza europea all’impero ottomano e poi di assumerne le redini dall’interno, a più riprese, con una successione di 30 Gran Visir tutti di origine albanese fra ‘500 ed ‘800.
Un paese che è riuscito a passare in pochi decenni dall’ateismo di Stato e dalle persecuzioni religiose di Enver Hoxha alla tranquilla convivenza dei giorni nostri di cattolici, ortodossi, musulmani e laici: esempio di normalità del bene da non sottovalutare, in un’epoca tormentata dall’intolleranza, nel cuore di una regione dove le pulizie etniche e religiose l’hanno fatta da padrone.
Così mi appare l’Albania, terra che non si sottomette a nessuna banalità, complicata da raccontare, a partire dal nome, che è cambiato almeno tre volte nella sua storia. Albania è stato il primo, e rimanda ai regni illirici con cui si affacciò da protagonista nell’Adriatico dei greci e dei romani, alle soglie dell’era moderna. Oggi i loro abitanti la chiamano “Shqiperia”, paese delle aquile, ma era “Arborea” fino al ‘500, e arboresh è il nome delle comunità sfuggite alla dominazione ottomana ed insediatesi in Italia tra la Puglia e la Sicilia.
Un esodo destinato a ripetersi alcuni secoli dopo, in condizioni diverse ma non meno drammatiche, e che ci ha fatto incontrare di nuovo dopo decenni di separazione forzata. Ristabilendo una vicinanza che è nella geografia e nella storia: in quell’essere innanzitutto paesi mediterranei, diversi e simili, abituati allo scambio, con un patrimonio comune di racconti e memorie. Di nuovo insieme oggi, ad affrontare sfide cui è legato il nostro comune futuro.
Al centro di tutto – memoria e sfide, passato e futuro – il cibo: declinazione in chiave locale di una grande varietà di cultivar e sapori mediterranei, sopravvissuti miracolosamente all’autarchia comunista di Hoxha, e sottoposti oggi alla minaccia più pervasiva della globalizzazione neo-liberista.
Due movimenti di natura opposta che convergono sullo stesso obiettivo: distruggere quella agricoltura contadina e familiare, legata alla piccola proprietà, ancora diffusa ovunque nel paese, che svolge un ruolo determinante nella produzione del cibo di qualità, nella tutela dei paesaggi rurali, nella conservazione della biodiversità e dei suoli. Terreni di pochi ettari, dove la vite e l’olivo convivono con il mais e il grano, dove non mancano mai una coppia di mucche per la produzione di latte, yogurt e formaggio, accanto ai maiali e ai polli per la carne e le uova, fra l’orto e il frutteto.
Un sistema integrato perfettamente efficiente nel garantire la fertilità dei suoli ed un’alimentazione equilibrata e sana, dove tutto si usa e riusa, e ogni componente svolge la sua funzione rigenerativa nel quadro di una economia circolare di piccola scala.
Un sistema che i tanti laudatores dello sviluppo industrialista bollano come arretrato, ma che è già nel nostro futuro, di noi che per capirlo abbiamo prima dovuto distruggerlo e poi cercare di ricostruirlo con grande fatica, riparando a tante ferite, a decenni di abbandono di campagne e colline, di eliminazione sistematica di saperi e colture.
La nostra speranza, e l’obiettivo per cui lavoriamo – grazie al progetto “Alleanza per l’agricoltura familiare nel Nord Albania”, finanziato dalla Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo – è che all’Albania delle mille sorprese e delle tante risorse, dove niente è banale, questo inutile passaggio sia risparmiato, e che diversamente da noi possa spiccare un magnifico, imprevedibile salto dal passato al futuro.
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di Giorgio Menchini, presidente Cospe per greenreport.it