Ambientalismo: dopo la guerra, un movimento nuovo (grazie anche a Keynes)
Le molte grandi novità del dopoguerra contribuiscono allo schiudersi di un’epoca nuova anche per l’ambientalismo e per le politiche ambientali. Proviamo ad elencarne i caratteri salienti.
L’idea che il capitalismo non sia in grado di autoregolarsi e il prestigio della pianificazione sovietica danno un forte impulso al diffondersi delle politiche di programmazione e di pianificazione, a partire da quelle urbanistiche, in tutti i paesi industriali. Il successo del keynesismo porta inoltre in primo piano la necessità che i governi pongano al centro della propria azione la soddisfazione dei bisogni dei cittadini, a partire da quelli più deboli. E’ in questo contesto che accanto ai programmi di edilizia popolare i governi nazionali e quelli cittadini impostano programmi di verde pubblico più ampi e ambiziosi che in passato, ma è pure in questo contesto che si diffonde la politica di creazione di parchi naturali che, salvo negli Stati Uniti, nella prima metà del Novecento si era manifestata in modo piuttosto frammentario e occasionale.
Un segnale in questo senso esemplare viene dal Regno Unito, patria di John Maynard Keynes e dal 1945, dopo la storica vittoria del Partito Laburista, apripista mondiale delle politiche di welfare grazie al Piano Beveridge. Nonostante l’Inghilterra fosse stato il primo paese al mondo – già negli anni Sessanta dell’Ottocento – a vedere la nascita di un movimento ambientalista, nel corso dei primi decenni del nuovo secolo nessun parco nazionale vi era stato istituito. Significativamente tra i documenti programmatici presentati dal Partito Laburista in occasione delle elezioni del 1945 fa parte un White Paper on National Parks che apre la via all’approvazione, nel 1949, del National Parks and Access to the Countryside Act, una vera e propria legge quadro che – come avverrà circa undici anni dopo in Francia – determina le modalità di istituzione e gestione dei futuri parchi nazionali. Sulla base di questa legge, infine, vengono creati nel 1951 ben quattro aree protette (Peak District, Lake District, Snowdonia e Dartmoor) che allineano finalmente il Regno Unito ai paesi europei più avanzati, e in particolare alla Svezia.
In secondo luogo la nuova impostazione dei rapporti internazionali, finalmente cooperativa dopo un trentennio di isolazionismi e di violente ostilità reciproche, si riflette presto anche sull’ambientalismo. Grazie al sostegno dell’agenzia per la scienza e per la cultura dell’ONU appena creata, l’UNESCO, tra il 1946 e il 1947 dei protezionisti svizzeri, britannici, olandesi e di altri paesi provano a riannodare i fili di dialogo internazionale interrottisi a più riprese dopo il 1913. Il risultato di questo sforzo è inedito per articolazione ed efficacia: con la creazione dell’Unione internazionale per la protezione della natura-UIPN (a Fontainebleau nel 1948) per la prima volta viene istituito un organismo mondiale ufficialmente riconosciuto, cui aderiscono molte decine di paesi, che ha fondi e personale propri e un’autorevolezza garantita dal sostegno attivo di un gran numero di studiosi. Nella sua lunga storia l’UICN (come si chiama dal 1956) è divenuta un punto riferimento essenziale per le politiche di protezione della natura a livello mondiale e a partire dal 1961 da una sua costola si è formata la più grande associazione ambientalista mondiale, il World Wildlife Fund. Nel corso dei decenni successivi la “diplomazia ambientale” si è consolidata sempre più grazie a nuovi organismi, iniziative e programmi, anche se non sempre con un effettivo successo sul piano dei risultati, come mostra bene la vicenda della lotta al riscaldamento globale.
In terzo luogo, se è vero che l’uscita dagli incubi e dalle distruzioni della guerra e la spettacolare crescita economica successiva alimentano ovunque un clima collettivo di euforia e di fiducia nel futuro forse mai sperimentato prima, è altrettanto vero che in molti ambienti serpeggiano inquietudini profonde sugli effetti del progresso tecnico. Negli Stati Uniti gli effetti della Grande Crisi sono stati amplificati dal Dust Bowl, una enorme catastrofe ambientale dovuta allo sfruttamento intensivo dei suoli agricoli; la comparsa dell’energia nucleare nello scenario di Hiroshima e Nagasaki ha gettato un’ombra funesta su questa formidabile scoperta della quale in ogni caso tutti si sforzano di esaltare le potenzialità pacifiche; proprio la crescita economica, infine, e la dimensione ormai globale dei processi socioeconomici fanno riaffiorare antiche preoccupazioni per una crescita eccessiva della popolazione mondiale e per la disponibilità delle risorse strategiche. Ben prima quindi del successo di Primavera silenziosa, il libro di Rachel Carson che darà il fuoco alla miccia ambientalista della metà degli anni Sessanta, oppure degli altrettanto celebri Limiti dello sviluppo del 1972, opere come Our Plundered Planet di Fairfield Osborn e Road to Survival di William Vogt, entrambe edite nel 1948, diventano best seller globali ammonendo sui rischi connessi a uno sviluppo tecnologico e a una crescita economica e demografica privi di qualsiasi controllo. Sulla scia di queste stesse preoccupazioni nei primi anni Cinquanta verrà recuperato l’insegnamento di George Perkins Marsh lanciato quasi un secolo prima con il pionieristico Man and nature; or, Physical geography as modified by human action e l’impegno contro la bomba atomica si tingerà sempre più di venature ambientaliste.
Anche se il grande boom ecologista mondiale avviatosi tra il 1965 e il 1970 ha spesso oscurato i venti anni dell’immediato dopoguerra, è proprio in questo periodo che l’ambientalismo assume una strutturazione internazionale finalmente solida, si diffonde presso strati di popolazione più vasti che in passato e raffina il proprio dibattito. Questo raffinamento modifica peraltro anche gli interessi e gli obiettivi del movimento: anche in seguito al discredito in cui nazismo e guerra hanno gettato il nazionalismo, la difesa del paesaggio e dei monumenti naturali diventa molto meno importante che in passato mentre prendono il centro della scena temi come quello delle risorse, della protezione degli ecosistemi, della lotta agli inquinamenti. L’ambientalismo, in questa transizione, diventa insomma meno “umanistico” e più “scientifico”.
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