«Non c’è lavoro su un pianeta morto»
Cop23, la lotta al cambiamento climatico vista dal mondo del lavoro
Conclusa la Conferenza delle parti a Bonn, rimane l’esigenza di accelerare la transizione verso un futuro carbon free rispondendo alle preoccupazioni di milioni di lavoratori. Anche in Italia
«Nel mio paese, Fiji, come in molti Stati vulnerabili, il vero killer di posti di lavoro è il cambiamento climatico». Dan Urai Manufolau, presidente del Trade union congress delle Fiji, è intervenuto alla 23esima Conferenza delle parti della Convenzione sui cambiamenti climatici dell’Onu (chiusasi il 17/11 a Bonn) parlando a nome del movimento sindacale internazionale (Ituc). Nonostante il vertice si sia tenuto in Germania, la presidenza della 23esima Cop spettava alle Fiji, ed è stato illuminante assistere alla testimonianza di un Paese che lotta ogni giorno in prima fila contro il cambiamento climatico.
«Le nostre comunità – ha continuato Manufolau – stanno ancora affrontando l’impatto devastante degli eventi metereologici estremi, e la prospettiva di sviluppo e prosperità sembra svanire all’orizzonte. Il cambiamento climatico è una minaccia per tutto quello per cui il movimento sindacale ha sempre lottato. E questo è il motivo per cui, noi siamo parte del movimento climatico e non smettiamo di chiedere maggiore ambizione, affinché l’obiettivo (1.5°) dell’Accordo di Parigi sia rispettato. Non c’è lavoro su un pianeta morto». Una verità che riguarda tutti.
Anche la Cgil – da sempre impegnata su questo fronte con il movimento sindacale internazionale – ha partecipato con una propria delegazione alla Cop23 Fiji, e non può che esprimere oggi preoccupazione per la conclusione della Conferenza senza che, ancora una volta, sia stata colta l’urgenza con cui occorre affrontare la sfida del cambiamento climatico.
A distanza di due anni dall’Accordo di Parigi, il cui obiettivo è quello di contenere l’aumento della temperatura ben al di sotto dei 2° facendo ogni sforzo per mantenerla entro 1,5°, gli impegni assunti sono ancora insufficienti a raggiungere l’obiettivo dichiarato (siamo in direzione di un aumento oltre i 3°). Non è più tempo per le parole, è tempo di agire. Non c’è bisogno di aspettare le scadenze o limitarsi a quegli impegni, assunti a livello internazionale, che la scienza ci dice essere assolutamente inadeguati. Il livello di ambizione deve essere innalzato rivedendo gli impegni volontari (Ndc) per metterli in linea con l’obiettivo di 1,5°. La trasformazione del modello di sviluppo deve essere agita con determinazione. I paesi più ricchi, che hanno causato il cambiamento climatico, devono agire per primi e assumersi la responsabilità di sostenere i paesi più poveri e vulnerabili, quelli più colpiti dall’impatto devastante del cambiamento climatico, con trasferimenti di tecnologie e adeguati mezzi finanziari, tali da garantire prosperità, giustizia sociale, accesso all’energia pulita per tutti, eradicazione della povertà.
Per quanto riguarda il nostro Paese. Il ministro Galletti è intervenuto nella sezione di Alto livello della Cop23 Fiji, fra le altre cose, per dichiarare che dall’Accordo di Parigi non si torna indietro, per ricordarci che l’Italia è già in linea con gli obiettivi europei clima-energia al 2020 e per riportare gli impegni – assunti nella Sen – di chiusura di tutte le centrali a carbone entro il 2025 e del 55% di produzione elettrica da fonti rinnovabili. A questo riguardo, riteniamo necessario fare alcune riflessioni. La prima: dall’Accordo di Parigi non solo non si deve tornare indietro, a meno di condividere le teorie negazioniste di Trump, l’accordo deve essere incrementato. La seconda: l’obiettivo della chiusura delle centrali a carbone entro il 2025 è di per sé una cosa positiva, soprattutto in termini di salute. Detto questo però in termini di transizione, per poter essere una scelta veramente sostenibile, occorre adottare un piano per la giusta transizione, attraverso il dialogo sociale e un processo partecipato e democratico che garantisca i diritti dei lavoratori e delle comunità.
Sono necessari mezzi finanziari adeguati e certi per sostenere la transizione energetica verso efficienza energetica e fonti rinnovabili, creare nuovi posti di lavoro, riqualificare e ricollocare i lavoratori coinvolti nelle chiusure. Solo una seria pianificazione della transizione energetica, che preveda: ricerca, innovazione, investimenti e fiscalità, può garantire occupazione, sicurezza energetica e competitività, in un reale percorso di decarbonizzazione.
La terza: in riferimento agli obiettivi della Sen il ministro ha preferito citare la cifra del 55% di produzione di elettricità da fonti rinnovabili al 2030, piuttosto che il 28% di energie rinnovabili sui consumi complessivi al 2030. Questa percentuale è solo di un punto più alta del 27% fissato dagli obiettivi clima-energia al 2030 dell’Ue. Gli altri due obiettivi europei sono 27% di efficienza energetica e 40% di riduzione delle emissioni al 2030. Va detto che alcuni studi mettono in dubbio che con 27% di rinnovabili e 27% di efficienza energetica si possa avere una riduzione del 40% delle emissioni, ma sopratutto questi impegni europei costituiscono gli impegni volontari assunti in relazione all’Accordo di Parigi, già ritenuti insufficienti a garantire l’obiettivo di 1,5°.
Alla luce di questi fatti, la Cgil e tutto il movimento sindacale globale considerano la Conferenza del prossimo anno – che si terrà in Polonia, a Katowice, città con una lunga storia economica legata al carbone – cruciale per il mantenimento delle promesse sulla giusta transizione, contenute nell’Accordo di Parigi. A Katowice la comunità internazionale dovrà riconoscere e rispondere concretamente alle preoccupazioni per il futuro di milioni di lavoratori e delle loro comunità. Per questo chiediamo ai governi di Fiji e Polonia di impegnarsi per un “piano d’azione di Katowice per la giusta transizione” creando lo spazio per un impegno ministeriale ad alto livello sulla giusta transizione.
Allo stesso tempo riteniamo necessario lavorare, sin da ora, all’interno del movimento climatico per favorire la reciproca comprensione fra le legittime preoccupazioni di sindacati e di lavoratori coinvolti nei processi di trasformazione e la necessaria urgenza dell’azione climatica, nella convinzione che solo un movimento unito può vincere la difficile sfida climatica.
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