Contro gli Airbnb che alzano la pressione sui residenti servono soluzioni praticabili
Da New York a Firenze, le nuove norme contro gli affitti brevi guardano al passato
Sarebbe più utile investire risorse per far evolvere questo mercato e renderlo più trasparente, migliorando l’integrazione col contesto urbano
Navigare a vista: è questo il consiglio che si può rivolgere a quanti in Italia e nel mondo si stanno avventurando nel necessario, ma difficilissimo compito di regolare il mercato degli affitti brevi turistici.
Si rifletta su quanto è successo a Firenze nei mesi scorsi. Il sindaco ha annunciato il primo giugno il blocco della registrazione di nuovi appartamenti e da allora gli iscritti sono passati da 9.500 a 13.700. In parte si tratta di un’emersione dal “nero”, ma per lo più si tratta di opportunità ulteriori di sviluppo dell’offerta, sinora “dormienti”, che la scelta del Comune ha risvegliato e sta di fatto incentivando a realizzarsi.
In questi giorni anche da noi si è guardato molto a New York, dove il 5 settembre scorso (con due mesi di ritardo) è entrata in vigore una nuova regolamentazione, ultima puntata di una storia decennale, giocata nelle aule dei tribunali, ma anche nell’arena politica. Una storia apparentemente senza fine.
Da un decennio era fissata la regola del divieto di affitto per meno di 30 giorni, ma nel 2014 la procura di New York stimava che tre quarti delle offerte sulla piattaforma di Airbnb violassero la legge dello Stato e la stessa Airbnb ammetteva che più della metà potesse essere considerata potenzialmente illegale. La municipalità insisteva anche sull’obbligo della trasmissione dei dati sugli host, con una lunga battaglia legale per la presunta violazione del Quarto emendamento.
Ed ora il nuovo giro di vite: obbligo degli host di registrarsi presso la municipalità e possibilità per proprietari e manager di iscrivere il proprio stabile in una lista di “edifici proibiti”. Tutto ciò con risultati contrastanti: positivi per quest’ultima lista (più di 2.300 iscrizioni in soli nove giorni); dubbi per la registrazione degli host (alla fine di agosto solo un quarto delle 3.250 domande erano state processate dagli uffici della municipalità).
Cosa imparare allora dal caso di New York? Prima di tutto, che la gestione amministrativa e le implicazioni legali non vanno sottovalutate. Anche in Italia, tra burocrazia e tribunali, attendiamoci tempi molto lunghi.
Le aree grigie di incertezza sull’applicazione delle norme sono significative. Basti pensare che le norme newyorkesi richiedono informazioni dettagliate e aggiornate sui residenti (con qualche problema di privacy!), la presenza fisica dell’host durante il soggiorno (teoricamente l’host non potrebbe andare in una sua altra abitazione o prendersi una vacanza) e addirittura il divieto di chiudere le porte a chiave all’interno dell’appartamento. Con quanto rigore possono essere realisticamente applicate?
In secondo luogo, ci sono le ricadute economiche. L’impatto sul catalogo di Airbnb, ossia la quota di unità per le quali non si accetteranno più prenotazioni, è stimato attorno al 70% delle 23.000 offerte attive a luglio 2023 (una cifra sensibilmente più bassa, tra l’altro, di quella pre-pandemica, quando le unità offerte erano ben 36.000).
Per Airbnb è un danno importante, ma limitato (New York City ha generato nel 2022 solo l’1% del fatturato). Il danno lo sentiranno soprattutto gli host, a cominciare da quelli più piccoli, meno attrezzati ad orientarsi nelle nebbie dei regolamenti e per i quali l’affitto breve è una significativa integrazione del reddito familiare.
Qualche preoccupazione in più merita il settore turistico nel suo complesso, dato che la minore disponibilità di affitti brevi potrà essere solo parzialmente recuperata dagli alberghi e a prezzi più alti.
Tutto da verificare è poi l’impatto sulla residenzialità. Che all’aumento dell’offerta di affitti brevi corrisponda una pressione sui prezzi e sugli affitti, con l’espulsione delle fasce meno abbienti, è un fatto incontrovertibile. Anche in Italia, studi recenti evidenziano come ad un aumento dell’1% nella penetrazione di Airbnb corrisponda un aumento del 6,7% nei prezzi delle case e del 5,7% nei prezzi degli affitti. Ma questo non vuol dire che siano sempre gli affitti brevi la (sola o principale) causa dell’aumento del costo degli alloggi e che quindi, rimossa la causa, il problema economico e sociale del caro-affitti venga automaticamente risolto.
Colpisce infine, nel caso di New York, il desiderio di riportare gli affitti brevi alla dimensione originaria, quella – per intendersi – della “economia della condivisione”, da cui per altro Airbnb (così come altri miti di quella stagione, ad esempio Uber) si sono ben presto distaccati.
In un’industria turistica in cui l’affitto breve è ormai un prodotto consolidato (con più piattaforme operanti, senza contare le offerte specializzate delle più grandi catene alberghiere) è realistico portare indietro l’orologio della storia? Non sarebbe più utile invece investire risorse per far evolvere questo mercato, renderlo più trasparente, rafforzarne la qualità, garantirne la sicurezza, migliorare l’integrazione con il contesto urbano, incentivarne la diffusione territoriale e la diversificazione di mercato (ad esempio, nei confronti dei nomadi digitali)? Insomma: guardare avanti e non nello specchietto retrovisore?