È caccia ai nuovi Obiettivi del millennio: i confini sociali e ambientali diventano opportunità
Credo che nessuna persona dotata di buon senso possa ritenere di procedere sulla strada del modello socio-economico sin qui perseguito, pensando di garantire un livello di consumo delle risorse (alimenti, acqua, terra coltivabile, biodiversità, case, infrastrutture, industrie, minerali, energia ecc.) equivalente a quello di un cittadino statunitense o europeo a tutti gli attuali 7,2 miliardi di abitanti del pianeta o ai 9,6 miliardi previsto per il 2050.
Come ha infatti già ricordato Greenreport, le Nazioni Unite hanno appena reso noto il nuovo World Population Prospects: The 2012 Revision. La popolazione attuale è di 7,2 miliardi e si prevede incrementerà di 1 miliardo entro i prossimi 12 anni, raggiungendo gli 8,1 miliardi nel 2025 e i 9,6 miliardi nel 2050. Nel “World Population Prospects” precedente, quello del 2010, la popolazione prevista al 2050 per la variante media (le Nazioni Unite analizzano, in ogni rapporto, le varianti bassa, media e alta nonché la variante costante, ma la più credibile rispetto a quanto poi si verifica nella realtà, è quella media) era di 9,3 miliardi.
Nel nuovo Prospects siamo ai 9,6 miliardi, con la previsione di un incremento di 300 milioni rispetto alla previsione precedente, dovuta alla revisione dell’andamento del livello dei tassi di fertilità totale (il numero di figli/figlie che ha una donna nell’arco della propria esistenza riproduttiva) di diversi paesi in via di sviluppo. Sempre secondo la variante media la popolazione mondiale al 2100 passerebbe quindi dalla precedente previsione (2010) di 10,1 miliardi a quella di 10,9 miliardi.
La maggior parte della crescita della popolazione avrà luogo nelle regioni in via di sviluppo. che si prevede incrementeranno la popolazione dai 5,9 miliardi nel 2013 agli 8,2 del 2050. Una significativa crescita della popolazione globale, nel periodo che va da ora al 2050, avrà luogo in Africa, dove la popolazione incrementerà da 1.1 miliardi attuali ai 2.4 miliardi nel 2050, raggiungendo potenzialmente addirittura i 4.2 miliardi nel 2100, alla fine del secolo. Nel 1950 l’Africa aveva 227 milioni di abitanti, nel 1975, 419 milioni mentre nel 2009 aveva sorpassato il miliardo.
Ricordando che l’aspettativa di vita a livello globale è andata aumentando da una media di 47 anni nel periodo 1950-55 a 69 anni nel periodo 2005-2010, l’impatto della specie umana sui sistemi naturali è stato riassunto in una famosa equazione pubblicata nel 1971, dai grandi studiosi Paul Ehrlich, il notissimo ecologo della Stanford University e John Holdren, esperto energetico, allora alla California University di Berkeley e – con il primo mandato di presidente di Barack Obama – capo scientifico della Casa Bianca.
Secondo l’equazione di Ehrlich e Holdren, l’impatto (I) dell’attività umana è il prodotto di tre fattori: la dimensione della popolazione (P), il suo tenore di vita (A, dall’inglese “affluence”) espresso in termini di reddito pro capite, e la tecnologia (T), che indica quanto impatto produce ogni dollaro che spendiamo. Questa nota equazione, derivata da una originale pubblicazione apparsa sulla prestigiosa rivista “Science” nel 1971 di Ehrlich ed Holdren, seguita da un ampio dibattito scientifico tra i due scienziati con l’altro noto ecologo Barry Commoner, è stata oggetto anche di due volumi di approfondimento divulgativo di Paul ed Anne Ehrlich (vedere i paper di Ehrlich P. e Holdren J., 1971, The Impact of Population Growth, Science, 171; 1212-1217, Ehrlich P.R. e Holdren J.P., 1972, One dimensional Ecology, Bullettin of Atomic Scientist 28 (5); 16, 18-27 ed i libri di Ehrlich P. e Ehrlich A., 1991, Un pianeta non basta, Franco Muzzio editore e Ehrlich P. e Ehrlich A., 1992, Per salvare il pianeta, Franco Muzzio editore, edizione italiana di entrambi i volumi a mia cura).
L’equazione di Ehrlich e Holdren ci dice con chiarezza che è impossibile ridurre l’impatto umano sui sistemi naturali intervenendo semplicemente su uno solo dei tre fattori che la compongono. E’ necessario, infatti, intervenire su tutti e tre.
Diventa quindi sempre più interessante comprendere come la comunità internazionale stia lavorando per individuare la revisione dei nuovi Obiettivi del Millennio (Millennium Development Goals, MDGs) a partire dal 2015 in un ottica di Obiettivi del Millennio di Sviluppo Sostenibile (Millennium Sustainable Development Goals, MSDGs).
Kate Raworth, senior researcher presso Oxfam e docente presso l’Environmental Change Institute dell’Università di Oxford, ha pubblicato un interessante rapporto sulla definizione di uno spazio equo e sicuro per l’umanità che ha riassunto anche in un capitolo del bel rapporto del Worldwatch Institute State of the World 2013. La sostenibilità è ancora possibile? (che uscirà in italiano per le Edizioni Ambiente a mia cura, nel prossimo settembre).
La Raworth ha incrociato l’affascinante lavoro di importanti scienziati del Sistema Terra, pubblicato nel 2009 su “Nature”, primo autore Johan Rockstrom, sui cosidetti “Planetary Boundaries” (i confini planetari) dei quali abbiamo trattato a lungo nelle pagine di questa rubrica, cercando di incrociarli con l’individuazione dei confini sociali.
Come ricorderete Rockstrom e gli altri hanno introdotto il concetto di confini planetari proponendo l’analisi di nove importanti e significativi ambiti interconnessi del sistema Terra quali la regolazione climatica, il ciclo dell’acqua dolce, il ciclo del carbonio, il ciclo dell’azoto, quello del fosforo, la biodiversità ecc. essenziali per mantenere il pianeta allo stato relativamente stabile conosciuto in questo periodo geologico dell’Olocene, uno stato dimostratosi negli ultimi 10.000 anni estremamente vantaggioso per l’umanità. Se sollecitati da pressioni eccessive originate dall’attività umana, tali processi possono oltrepassare delle soglie biofisiche che gli scienziati si sono sforzati di indicare – alcuni su scala globale, altri su scala regionale – verso cambiamenti repentini, e a volte irreversibili, mettendo pericolosamente a repentaglio la base delle risorse naturali da cui dipende il benessere dell’umanità. Per evitare questa situazione, gli scienziati hanno avanzato una prima proposta, una serie di “confini” al di sotto di questa zona critica, come il limite della presenza di anidride carbonica (CO2) nell’atmosfera sotto le 350 parti per milione (ppm) per evitare pericolosi cambiamenti climatici.
Complessivamente, i nove confini possono essere concepiti come parte integrante di un cerchio e l’equipe di Rockström ha definito la zona che circoscrivono al loro interno come “uno spazio operativo sicuro per l’umanità”. Secondo le prime stime presentate nel 2009 nelle pagine di “Nature”, almeno tre dei nove confini sono già stati oltrepassati – cambiamenti climatici, ciclo dell’azoto e perdita di biodiversità – e le pressioni sulle risorse si stanno rapidamente avvicinando ai limiti globali previsti anche per altri.
Il concetto dei nove confini planetari evidenzia efficacemente complesse questioni scientifiche a un vasto pubblico mettendo in discussione le concezioni tradizionali dell’economia e dell’ambiente. Mentre l’economia convenzionale tratta il degrado ambientale come una “esternalità” che ricade in gran parte fuori dell’economia monetizzata, gli scienziati naturali hanno letteralmente sovvertito tale approccio proponendo un insieme di limiti quantificati dell’uso di risorse entro cui l’economia globale dovrebbe operare, se si vuole evitare di toccare i punti di non ritorno del sistema Terra. Tali confini non sono descritti in termini monetari ma con parametri naturali, fondamentali a garantire la resilienza del pianeta affinché mantenga uno stato simile a quello dell’Olocene.
Kate Raworth ricorda però che vi è un aspetto importante che manca nel quadro generale. E’ vero, il benessere umano dipende dal mantenimento dell’uso complessivo delle risorse al di sotto di soglie critiche naturali, ma dipende in egual misura dalle rivendicazioni di singoli individui al bisogno di alcune risorse per condurre una vita dignitosa e ricca di opportunità. Le norme internazionali sui diritti umani hanno storicamente sostenuto per ogni individuo il diritto morale a risorse fondamentali quali cibo, acqua, assistenza sanitaria di base, istruzione, libertà di espressione, partecipazione politica e sicurezza personale, indipendentemente da quanto denaro o potere avessero. Proprio come esiste un confine esterno all’uso delle risorse, un “tetto” oltre cui il degrado ambientale diventa inaccettabile, così esiste un confine interno al prelievo di risorse, un “livello sociale di base” sotto cui la deprivazione umana diventa inaccettabile.
Certamente, un livello sociale base così garantisce solo i bisogni umani primari. Ma se si considera l’attuale portata della povertà e dell’estrema disuguaglianza a livello globale, la garanzia di una base comune di diritti umani per tutti deve essere una priorità.
Dal 2000, gli MDGs rappresentano un importante quadro di riferimento per le priorità sociali di sviluppo e hanno trattato varie privazioni, reddito, nutrizione, uguaglianza di genere, salute, istruzione, acqua e servizi igienico-sanitari, la cui urgenza non è stata risolta. L’emergente dibattito internazionale su cosa dovrebbe rimpiazzare gli MDGs dopo il 2015 sta riportando l’attenzione su altre problematiche sociali tra cui resilienza, accesso all’energia ed equità sociale.
Tali importanti iniziative volte a definire una nuova serie di obiettivi globali di sviluppo potrebbero portare a un consenso internazionale sulle questioni sociali prioritarie da affrontare nei prossimi decenni, creando accordo a livello internazionale su un livello sociale base. Nell’attesa di tale accordo, un’indicazione di quali siano le preoccupazioni condivise a livello internazionale è rappresentato dalle priorità sociali più sentite dai governi in preparazione alla Conferenza di Rio+20, presentate a livello regionale e nazionale prima del summit. Da un’analisi emerge che oltre la metà delle proposte convenivano su 11 priorità sociali: privazioni di cibo, acqua, assistenza sanitaria, reddito, istruzione, energia, posti di lavoro, diritto di espressione, parità di genere, equità sociale e resilienza allo shock.
La Raworth ha preso queste 11 priorità come una base sociale esemplificativa incrociandole con i confini planetari. Si viene così a formare tra i diritti di base e i tetti ambientali dei confini planetari una fascia a forma di ciambella che può essere definita sicura per l’ambiente e socialmente giusta per l’umanità.
Una combinazione di confini sociali e planetari di questo tipo crea una nuova prospettiva di sviluppo sostenibile. Da molto tempo i fautori dei diritti umani hanno sottolineato l’imperativo di assicurare a ogni individuo il minimo indispensabile per vivere, mentre gli economisti ecologici si sono concentrati sul bisogno di collocare l’economia globale entro limiti ambientali. Questo spazio è una combinazione dei due, creando una zona che rispetti sia i diritti umani di base sia la sostenibilità ambientale, riconoscendo anche l’esistenza di complesse interazioni dinamiche tra i molteplici confini e al loro interno.