Economia sostenibile della conoscenza, la strada della speranza per lo stato stazionario
Solo così potremo raggiungere l'obiettivo senza un regresso
Il problema lo ha posto, da par suo, Herman Daly. Abbiamo bisogno di cambiare il modello economico. Dobbiamo abbandonare il modello della “crescita senza sviluppo”: ovvero sulla crescita economica fondata sull’uso illimitato di materia ed energia che, tra l’altro non prevede lo sviluppo umano. Dobbiamo puntare su un modello di “sviluppo senza crescita”: ovvero di un reale progresso (e il termine va sottolineato) della condizione umana in uno “stato stazionario” di consumi di risorse ambientali (materia ed energia).
Non è semplice, ma si può fare.
Abbiamo a disposizione una risorsa che ha due pregi: 1) è immateriale; 2) non si consuma, anzi più la usi, più aumenta. Questa risorsa illimitata è la conoscenza. In realtà, viviamo già nel’era della conoscenza. La nostra vita, il nostro lavoro, il nostro tempo libero, il mercato degli oggetti e dei servizi che compriamo e vendiamo si fondano sempre più sull’uso di nuove conoscenze (soprattutto scientifiche). Proprio come la vecchia società industriale si fondava sull’uso delle macchine.
Il valore dei beni scambiati nell’economia della conoscenza non è dato solo e tanto dal costo della materia prima e dal costo del lavoro (degli uomini o delle macchine) ma anche e soprattutto dal contenuto di nuova conoscenza, soprattutto scientifica. L’economia della conoscenza è quella fondata su beni e servizi intrisi di sapere.
Non è un’astrazione. I beni che noi consumiamo sono sempre più ad alto tasso di conoscenza aggiunto. Si calcola, per esempio, che oltre un terzo del commercio mondiale riguardi lo scambio di beni hi-tech, ad alta intensità di conoscenza. E che ben oltre la metà dell’economia mondiale si fondi su beni e servizi ad alto contenuto di conoscenza, sull’industria creativa, sulla formazione, sulla ricerca scientifica e umanistica.
Esiste una vasta letteratura sui limiti della società e dell’economia della conoscenza così come si sono venute storicamente formando. Da Joseph Stiglitz a Saskia Sassen, da Zygmunt Bauman a Manuel Castels, da Amartya Sen allo stesso Herman Daly sono molti gli studiosi che hanno analizzato e denunciato i limiti sociali (crescita della disuguaglianza) ed ecologici (aumento dei consumi di materia e di energia) nell’era della conoscenza. Sono limiti clamorosi. Che stridono con i due caratteri che abbiamo attribuito alla conoscenza (immaterialità e non rivalità). È questa contraddizione che ha portato Joseph Stiglitz a parlare di “promesse infrante”.
Le domande, pertanto, sono tre: 1) perché nell’era della conoscenza continuiamo ad avere una “crescita senza sviluppo”? 2) possiamo costruire una società democratica e sostenibile della conoscenza che consenta di realizzare l’ideale dello “sviluppo senza crescita”? 3) possiamo pensare a un’ipotetica economia dello stato stazionario senza conoscenza?
Le risposte a queste tre domande meritano un’analisi approfondita. Che cercheremo di realizzare nei prossimi interventi in Ecoquadro. Per ora diciamo che buona parte delle tre risposte è contenuta nell’equazione che misura l’impatto umano sull’ambiente proposta da Paul Ehrlich e da John Holdren oltre quarant’anni fa: I = P A T
L’impatto umano sull’ambiente (I) è il prodotto di tre fattori: la popolazione umana (P), l’affluence, ovvero i consumi pro capite (A), il fattore tecnologico (T), ovvero l’impatto ambientale per unità di consumo.
Alla domanda numero uno possiamo rispondere così, almeno in prima battuta: l’era della conoscenza ha infranto le sue promesse perché ha utilizzato un modello di crescita (chiamato da alcuni turbo capitalismo, da altri neoliberismo, da altri ancora pensiero unico) fondato sui consumi individuali. Un modello che punta quasi tutto sull’aumento del fattore A, auspica un incremento del fattore P e tutto sommato tiene poco conto del fattore T. Questo modello di economia di mercato fondata sui consumi individuali ha generato una “crescita senza sviluppo” persino nell’era della conoscenza. Ovvero persino nell’era in cui l’intensità di materia e di energia dei beni e dei servizi prodotti tende a diminuire. Ciò si è verificato in seguito a un meccanismo, al “paradosso di Jevons”, che gli economisti conoscono molto bene.
La domanda numero tre è retorica. Non possiamo pensare a un’economia dello stato stazionario senza conoscenza. Senza puntare sul fattore T dell’equazione di Ehrlich e Holdren. Il perché è evidente. In un’economia in cui T è stazionario, l’impatto umano sull’ambiente dipenderebbe solo dai fattori P e A. Ma il fattore P, la popolazione, è destinato a crescere nei prossimi decenni, anche se con velocità sempre più ridotta. Di conseguenza, con T stazionario, sarebbe A, il fattore dei consumi pro capite, a dover drasticamente diminuire. Insomma, andremmo incontro a una “decrescita infelice”: una profonda recessione, con aumento delle disuguaglianze sociali. Qualcosa di cui noi in Italia già avvertiamo l’odore.
Resta da risponder alla seconda domanda: possiamo costruire una società democratica e sostenibile della conoscenza che consenta di realizzare l’ideale dello “sviluppo senza crescita”? Anche questa è una domanda retorica. Perché il “sì” è l’unica opzione che ci resta per costruire un futuro desiderabile.
Rispondere sì a questa domanda richiede tre scelte. La prima è quella di assecondare un carattere per fortuna presente in maniera significativa nella natura umana: la curiosità. Il bisogno di conoscere e di spiegare. Insomma, produrre incessantemente nuova conoscenza. Sviluppare la ricerca, scientifica e umanistica. E con essa la formazione. Già adesso la somma della spesa in ricerca e della spesa in formazione (la scuola di ogni ordine e grado) sfiora il 10% del Prodotto interno lordo (Pil) mondiale. Si può (si deve) fare di più. Per tre motivi. Perché è un’attività che produce sviluppo umano; perché ha un basso impatto ambientale; perché ci consente di conoscere meglio l’ambiente, naturale e sociale, in cui viviamo e, dunque, di poter agire al meglio.
La conoscenza ha un valore in sé, ma anche un valore pratico. Consente di innovare. Di sviluppare nuove tecnologie. Se noi diamo un forte indirizzo a questa capacità della conoscenza – sviluppare tecnologie che consentano sempre più sviluppo umano e sempre meno crescita dei consumi di materia e di energia – allora lo “sviluppo senza crescita” diventa un traguardo raggiungibile.
La terza scelta è di tipo culturale. Dobbiamo rivedere la scala dei valori imperanti. Passare da un sistema centrato sulla produzione di beni e di servizi per il consumo individuale, a un sistema centrato sulla produzione di “beni e servizi comuni”. La conoscenza, “bene comune”, ancora una volta ci aiuta. Perché è una risorsa illimitata, immateriale, che favorisce di per sé lo sviluppo umano.
È, dunque, solo attraverso la conoscenza che potremo raggiungere un’economia dello “stato stazionario” che non sia anche un’economia di regresso. Umberto Eco ha individuato i tre vertici del triangolo di questa economia: la ricerca, la formazione e l’industria creativa. Al “triangolo di Eco” è possibile aggiungere un quarto vertice, la salute fisica e psichica dell’uomo, e poi un quinto, la salute dell’ambiente, e trasformarlo nel “pentagono dello sviluppo (senza crescita)”.
Ma di questo parleremo la prossima volta.
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