Guerre, migrazioni, cambiamenti climatici: cosa possono dare cittadini, istituzioni e Pmi per contrastarli?
L’edizione 2018 di “Mediterraneo Downtown”, appena conclusasi a Prato, ha contato diversi incontri dedicati all’ambiente
Immigrazione e conflitti quanto hanno a che fare con il cambiamento climatico? Da questa domanda sono partiti Grammenos Mastrojeni, diplomatico italiano, coordinatore per l’eco-sostenibilità della Cooperazione allo Sviluppo, e Antonello Pasini, fisico teorico, ricercatore dell’Istituto sull’inquinamento atmosferico del Cnr, docente di Fisica del clima e di Sostenibilità ambientale, per il loro libro “Effetto serra, effetto guerra: Clima, conflitti, migrazioni: l’Italia in prima linea”, al centro di uno dei talk della seconda edizione del festival “Mediterraneo Downtown” che si è tenuto dal 3 al 6 maggio a Prato e che ha contato diversi incontri dedicati all’ambiente, uno dedicato all’economia circolare, uno, appunto, ai cambiamenti climatici e le migrazioni.
Le aree da cui arrivano i migranti che approdano in Europa hanno tutte qualcosa in comune: stanno già subendo in maniera forte gli effetti del cambiamento climatico in atto. Desertificazione, usura del suolo, scarsità di risorse idriche sono tra le prime cause di guerre nazionali e internazionali (si stima che oggi al mondo ci siano ben 79 conflitti legati a questioni ambientali) e contribuiscono al peggioramento della qualità della vita e all’aumento della povertà di intere popolazioni.
«Abbiamo cominciato da questa considerazione – ha spiegato Mastrojeni all’incontro a cui ha partecipato anche Giovanni Simoni, imprenditore nel campo delle rinnovabili e rappresentante di Elettricità Futura, la principale associazione del mondo elettrico italiano – per arrivare a un importante conclusione: se abbandoniamo l’Africa al suo destino e costruiamo un muro per arginare l’immigrazione, creeremo soltanto una bomba esplosiva che prima o poi ci colpirà. Eppure è scientificamente provato che basterebbe poco per adottare soluzioni che apporterebbero benefici non solo all’ambiente, sia globalmente che localmente, ma anche all’economia italiana e agli altri Paesi del Mediterraneo: sarebbe sufficiente avviare una cooperazione tra piccole e medie imprese italiane, paesi del Sahel e del Maghreb sia per incentivare la costruzione di impianti di energia solare ed eolica che per rivitalizzare il suolo, con costi bassissimi e ottimi risultati su tutti i fronti».
Una collaborazione con l’obiettivo comune di proteggere l’ambiente che porterebbe effetti positivi a cascata: aumento del Pil, miglioramento del clima e delle condizioni di vita, diminuzione dei conflitti. Totalmente d’accordo anche Simoni, che ha sottolineato come le imprese che si occupano di energie rinnovabili stanno già lavorando per rimuovere gli ostacoli burocratici e finanziari per approdare in Marocco e in Tunisia e mettere in piedi un network di imprese del Mediterraneo che lavorino per uno sviluppo sostenibile.
E imprese, istituzioni e popolazione locale stanno già lavorando insieme in Toscana, dove si vedono i primi suoi frutti del progetto “Arcipelago Pulito”, partito lo scorso 20 aprile, frutto di un accordo tra Regione Toscana, Ministero dell’ambiente, Unicoop Firenze (che finanzia i pescatori con i ricavi della vendita dei sacchetti biodegradabili del banco della frutta e della verdura), Legambiente, Autorità portuale del Mar Tirreno Settentrionale, Labromare (concessionaria per il porto di Livorno per la pulizia degli specchi acquei portuali), Direzione marittima della Toscana, azienda di raccolta dei rifiuti Revet e cooperativa Cft.
«Arcipelago Pulito è un progetto molto ambizioso – ha incalzato Bugli – nato da alcune chiacchierate con i pescatori di Livorno, che ci hanno raccontato di trovare nelle loro reti grosse percentuali di rifiuti che però, per questioni legislative erano costretti a rigettare in mare». La legislazione italiana, infatti, presenta un grosso paradosso: da una parte i pescatori sarebbero obbligati a raccogliere i rifiuti in mare, ma dall’altra vi è una norma che di fatto li obbliga a rigettarli per non essere considerati produttori di rifiuti speciali. «Con Argipelago Pulito la Regione – ha proseguito l’assessore regionale – dà ai pescatori l’opportunità di portare in porto i rifiuti e destinarli, quando possibile, al riciclo, in modo da contribuire a liberare il mare dalle plastiche», che costituiscono circa il 95% dei rifiuti galleggianti avvistati quotidianamente.
Il progetto sperimentale si propone di essere esteso a tutto il territorio nazionale, spingendo affinché anche la normativa si adegui per incentivare questo virtuoso processo di recupero dei rifiuti con la collaborazione di chi lavora in mare.
«Ma non è solo in questo senso che dobbiamo lavorare – ha sottolineato Giorgio Zampetti, direttore generale di Legambiente – Spesso parliamo di rifiuti marini, ma la principale fonte di rifiuti in mare è la cattiva gestione dei rifiuti urbani. Per questo il nostro progetto si occupa anche di sensibilizzazione delle pubbliche amministrazioni, delle aziende e dei cittadini, in linea con gli obiettivi UE di ridurre l’uso della plastica, in particolare di quella usa e getta, che è anche quella maggiormente presente tra i rifiuti abbandonati».
Dall’altra parte del Mediterraneo la situazione non è meno complessa: Joslyn Kehdy di Recycle Lebanon ha raccontato durante l’incontro di come la società civile stia cercando di lottare pacificamente contro le scelte del governo per contrastare l’enorme crisi dei rifiuti che dal 2015 colpisce il Paese.
«I rifiuti in Libano vengono raccolti in discariche spesso abusive, perché i pochi impianti di riciclo e smaltimento esistenti non hanno fondi per funzionare bene – ha spiegato Kehdy – Ma Recycle Lebanon è un’associazione nata alcuni anni fa non per riciclare i rifiuti, bensì per cambiare le abitudini dei libanesi e del mondo intero, in maniera olistica, per eliminare quella plastica che è presente in tutto ciò che noi quotidianamente utilizziamo e che ha effetti negativi non solo sull’ambiente ma anche su di noi e sul nostro corpo. Dobbiamo cercare di risvegliare le coscienze, per proteggere la nostra cultura e l’ambiente – ha concluso Kehdy – recuperando le nostre tradizioni, costringere le aziende a fornirci beni che non producono rifiuti inutili, specialmente di plastica».