Il 13% è il peso sul Pil del comparto, l’1,8% la rappresentazione del peso politico nel Pnrr
Il turismo è sparito dal Piano nazionale di ripresa e resilienza, e non è un caso
È possibile parlare di economia verde e di transizione ecologica senza integrarvi un’idea forte di turismo sostenibile?
Anche l’Italia del turismo è in attesa del prossimo “Piano nazionale di ripresa e resilienza” (Pnrr) e degli ingenti finanziamenti che dovrebbero sostenere l’economia post-pandemica. I segnali sono però tutt’altro che incoraggianti, nonostante il turismo abbia pagato il prezzo più alto della crisi, con impatti devastanti sul tessuto delle imprese e conseguenze drammatiche sul piano sociale.
La bozza “riservata”, che, secondo la prassi attuale, è stata ampiamente diffusa da inizio dicembre, lascia sbalorditi per l’approssimazione e la scandalosa fragilità dei contenuti. Il confronto con gli interventi già in atto in altri Paesi europei, come la Francia, è imbarazzante. Quello tra la percentuale del Pil nazionale prodotta dal turismo (13%) e la percentuale delle risorse che il Pnrr dedicherebbe alla filiera cultura-turismo (3,1 miliardi di euro su 196, ossia l’1,6%) appare inaccettabile, tanto più che sembra confermata anche nella seconda bozza – sempre “riservata” – fatta circolare dal 29 dicembre, dove l’importo si ferma a 3,5 miliardi di euro (l’1,8% sui 196 miliardi di euro ipotizzati). Le reazioni degli operatori economici sono state improntate ad irritazione e delusione, perché una tale disparità non si giustifica come frutto di un errore o di una distrazione, ma solamente come espressione di una volontà esplicita.
È in effetti divenuto evidente quello che già si poteva comprendere da tempo, ossia che nel nostro Paese il turismo è un gigante economico, ma un nano politico. Il 13% è il peso economico; l’1,8% la rappresentazione del peso politico.
Le spiegazioni sono molteplici e hanno radici profonde. Vi è certamente nelle élite politiche una cultura infarcita di pregiudizi industrialisti. La subordinazione del turismo alla cultura, che si manifesta nella organizzazione delle competenze a livello nazionale (con l’assenza cioè di un ministero del Turismo), esprime una visione incredibilmente ristretta e datata del fenomeno turistico nelle società contemporanee e delle sue dinamiche economiche. La stessa figura dell’attuale ministro, sistematicamente distratto dal suo ruolo di partito, incarna questa trascuratezza esistenziale nei confronti del turismo.
Ma vi è anche una grave fragilità delle rappresentanze di interessi, che producono idee e proposte apprezzabili, ma faticano ad esprimere una visione d’insieme ed una coerente strategia. Soprattutto non sono riuscite ad esprimerla in questa fase drammatica: prima, perdendo tempo prezioso sulle barricate dell’epidemia come “psicosi”; poi, tollerando una competizione fondata sull’autoproclamata e regolarmente smentita “sicurezza” di questa o quella destinazione; infine, subendo con affanno la sequenza caotica delle chiusure ed aperture.
Già disaggregata territorialmente per la necessità di partecipare alla confusa governance “multi-livello” (nazionale, regionale e locale) che caratterizza le politiche del turismo, la rappresentanza imprenditoriale è per di più disarticolata in una serie di lobby, tanto aggressive quanto più specifici ed autoreferenziali sono gli interessi tutelati. È il turismo stesso che insomma non si è presentato e rappresentato come industria, ma come un patchwork di comparti, che solo il virus è riuscito, parzialmente e temporaneamente, ad assemblare.
Tornando al Pnrr, vi è da domandarsi allora come segnare un cambiamento nel modo in cui la politica considera il turismo ed in cui il turismo considera se stesso. Forse, invece di impegnarsi in un tiro alla fune sulle percentuali, potrebbe essere giunto il momento di affermare che nessuna delle grandi questioni che l’Europa ci chiede di affrontare può essere trattata senza o a prescindere dal turismo.
È possibile parlare di economia verde e di transizione ecologica senza integrarvi un’idea forte di turismo sostenibile? È possibile fare scelte infrastrutturali o sulla digitalizzazione, sulla ricerca o sulla sanità, sulla inclusione sociale o sulla coesione territoriale senza domandarsi quali sfide e quali opportunità derivino dal turismo? Ed è possibile immaginare interventi di riqualificazione dell’edilizia privata senza cogliere la strategicità dell’ammodernamento delle strutture per qualsiasi politica che miri ad aumentare la competitività del settore?
Forse sarebbe anche il momento di rivendicare con orgoglio lo straordinario sforzo di innovazione che molti operatori e molte destinazioni hanno espresso in questi difficili mesi, rispondendo in modo creativo alle esigenze igieniche e di distanziamento, salvo poi essere oggetto di chiusure indiscriminate. E si dovrebbe anche ricordare l’importante contributo che le strutture turistiche hanno dato alla stessa gestione della pandemia, a cominciare dagli “alberghi Covid”.
Da più parti oggi si ammonisce che la qualità del Pnrr e della sua realizzazione saranno decisivi, quasi un’ultima prova concessaci dalla storia per consolidare il nostro status tra i grandi paesi industrializzati e tra i protagonisti della costruzione europea o invece ridimensionarlo definitivamente. In questo contesto è da capire se l’industria turistica nazionale è destinata ad essere parte attiva di un progetto sul futuro del Paese oppure rimarrà il semplice gestore (e non più di questo) di un colto e soleggiato resort della nuova Europa, chiamato Italia.