Un percorso che ci aiuta a capire perché per l’ambiente è così difficile toccare la nostra morale
In viaggio nel cervello, alla ricerca della mente: l’uomo è davvero libero?
Si riunisce oggi a Padova il I congresso italiano di neuroetica. A greenreport uno dei protagonisti, lo psichiatra Pietro Pietrini
La più grande e affascinante zona d’ombra nella conoscenza scientifica del XXI secolo è molto probabilmente dentro la nostra testa, nel funzionamento della mente umana. Quella delle neuroscienze è una sfida che è stata raccolta in pieno dagli Stati Uniti con la mappatura del cervello promossa da Obama, la Brain activity map e nella nostra Europa con lo Human brain project. Ma questi programmi sono dei vessilli, insieme ai quali rimangono altre ricerche che rappresentano punte d’eccellenza assoluta. Tutte, però, si muovono all’interno di quel campo d’analisi tanto fluido e interdisciplinare che sembra ancora difficile da racchiudere in una formula univoca, la neuroetica.
Oggi a Padova prende il via l’evento clou del settore, il primo congresso della Società italiana di neuroetica, dove scienziati ed esperti internazionali si riuniranno per il dibattito. Per capire meglio di cosa si tratta greenreport ha contattato uno dei protagonisti: Pietro Pietrini, psichiatra e ordinario di Biochimica clinica e Biologia moelcolare clinica all’università di Pisa, nonché Direttore dell’unità operativa di Psicologia clinica all’azienda ospedaliero universitaria pisana.
Innanzi tutto, non è semplice dare una definizione univoca di neuroetica. Qual è la sua?
«Il termine neuroetica – spiega viene comunemente inteso in una duplice accezione: da una parte la riflessione sui principi etici che devono guidare la ricerca neuroscientifica e le sue applicazioni, e dall’altra lo studio dei correlati neurobiologici (neuroscientifici) dell’etica, del senso morale. Sono entrambi settori di grande interesse e attualità. Basti pensare, per quanto riguarda l’etica delle neuroscienze, alle discussioni sorte intorno alle recenti strategie di intervento in campo neurologico e psichiatrico, quali la deep-brain stimulation (stimolazione cerebrale profonda) nel morbo di Parkinson e nella depressione resistente al trattamento farmacologico, lo sviluppo di interfacce cervello-computer, il brain-reading, fino ad arrivare alle possibilità di impiego di cellule staminali per la rigenerazione di strutture lesionate.
Lo snodo disciplinare della neuroetica può essere percorso in più direzioni, due delle quali sono certamente l’etica delle neuroscienze e le neuroscienze dell’etica. Per quanto riguarda la seconda via, ad oggi cosa sappiamo delle basi neurologiche della nostra morale?
«Lo studio delle basi cerebrali e neurobiologiche dell’etica è uno dei settori più affascinanti. Lo sviluppo delle metodologie di esplorazione morfologica e funzionale del cervello ci ha permesso da alcuni anni di avventurarci nello studio dei correlati molecolari del pensiero, dei processi decisionali, del senso del bene e del male, in una parola di quelle funzioni mentali che per secoli sono state terreno di riflessione e di studio della filosofia. Le nuove conoscenze della biologia molecolare, della genetica e degli studi in vivo di esplorazione cerebrale nell’uomo stanno portando a caratterizzare con sempre maggiore precisione le strutture cerebrali e le connessioni che ci permettono di provare empatia, di decidere se fare o non fare una certa azione e così via. Abbiamo cominciato – ormai da tempo – un vero e proprio viaggio nel cervello alla ricerca della mente».
I confini plastici della neuroetica finiscono per inglobare anche un tema fondamentale della condizione umana, quel libero arbitrio che finora era stato pressoché materia di religione e filosofia ma che si intreccia anche con elementi molto concreti della vita quotidiana, come la responsabilità individuale (e legale) delle proprie azioni. Cos’ha da dire la neuroetica in merito?
«Il libero arbitrio, sul quale si discute da millenni, da un punto di vista neuroscientifico, pragmatico, può essere definito come la capacità di non rispondere in maniera automatica ad un impulso, ad un istinto che proviamo. Vuol dire, in altre parole, sottoporre al vaglio della ragione le nostre decisioni. La possibilità di far questo è alla base della nostra capacità di agire in maniera consapevole e di essere pertanto responsabili delle nostre azioni.
Le conoscenze provenienti dalle neuroscienze indicano che noi siamo condizionati da diversi fattori nel nostro agire – si badi bene, ho detto condizionati, non determinati – Vuol dire che la variabilità naturale ci rende tutti diversi non solo nell’aspetto fisico, ma anche nei tratti della personalità, nelle modalità con cui rispondiamo all’ambiente esterno, nella vulnerabilità ad ammalarci e nel rispondere ai diversi trattamenti farmacologici e non. Oggi lo studio della complessità dell’interazione geneXambiente è portato a un livello molecolare, cioè possiamo studiare l’interazione tra diverse varianti alleliche e stimoli ambientali. Questi studi ci mostrano che certe varianti alleliche di geni responsabili per la sintesi di neurotrasmettitori o di recettori cerebrali conferiscono, a parità di fattori ambientali, un rischio maggiore di sviluppare una patologia depressiva in seguito a eventi di perdita, quali un grave lutto famigliare o il licenziamento. Dunque oggi possiamo esaminare a livello molecolare quello che già Freud, il geniale studioso che ha cambiato il corso della psichiatria nel ‘900, scriveva un secolo fa, ad esempio in Lutto e Melancolia (1916). Allo stesso modo, altri studi, alcuni dei quali condotti nel nostro laboratorio dal gruppo guidato da Silvia Pellegrini dell’università di Pisa, mostrano che alcune varianti alleliche sono associate con una maggior vulnerabilità allo sviluppo di un comportamento impulsivo, aggressivo e antisociale.
Questo, lo ribadisco, non vuol dire che esista un determinismo nella genesi del comportamento antisociale. Ma vuol dire che per alcuni è più difficile non rispondere in maniera violenta a situazioni di provocazione, specialmente se sono stati esposti ad ambienti negativi fin da piccoli».
Di grande rilevanza per la realizzazione di uno sviluppo sostenibile è l’apparente incapacità umana di sentirsi moralmente responsabili per azioni i cui risultati sono differiti nel tempo e nello spazio, come nel caso dei cambiamenti climatici o nell’esaurimento delle risorse naturali. Crede che questo problema sia un tratto culturale migliorabile, o un dato di fatto – potremmo dire biologicamente dato – a cui rassegnarci?
«I recenti studi delle neuroscienze mostrano che eventi con i quali non entriamo in contatto diretto hanno un effetto drammaticamente diverso sul nostro cervello. I dilemmi morali sono un utile esempio. Tutti conoscono il dilemma del trolley: un trolley corre senza controllo sui binari dove, poco distante, travolgerà cinque operari che stanno lavorando alla linea ferroviaria uccidendoli; voi siete accanto ad una leva, tirando la quale potete deviare il trolley su un binario morto, dove si trova un solo operaio, che verrà ucciso dal trolley. E’ giusto tirare la leva? A questa domanda circa il 90% degli intervistati risponde di sì.
Ora, il dilemma viene modificato in questo modo: un trolley corre senza controllo sui binari dove, poco distante, travolgerà cinque operari che stanno lavorando alla linea ferroviaria uccidendoli; voi siete su un ponte che sovrasta i binari; accanto a voi c’è un individuo robusto. Se lo buttate di sotto bloccherà la corsa del treno; lui morirà, ma i cinque operari saranno salvi. In questo caso, il 90% degli intervistati risponde no.
Per quanto il risultato sia esattamente lo stesso nei due casi (sacrifico una persona per salvarne cinque) e razionalmente abbia la stessa logica, le risposte nei due scenari sono diametralmente opposte. Una spiegazione a questo apparente paradosso è giunta dagli studi di esplorazione funzionale del cervello. Si è visto che nel primo caso quando l’individuo è chiamato a prendere una decisione ingaggia quasi esclusivamente il ‘cervello razionale’, cioè le strutture corticali frontali deputate alla pianificazione e al controllo decisionale. Nel secondo caso, per contro, vengono chiamate in causa le strutture del ‘cervello emotivo’. Il fatto di sacrificare direttamente, strumentalmente e non come effetto collaterale, la vita di un essere umano pone un forte dilemma morale. Scrupolo che non compare quando gli effetti della decisione non sono la conseguenza diretta, tangibile del nostro agire. Questo può contribuire a spiegare perché queste problematiche ambientali che non riusciamo a vedere direttamente connesse al nostro agire immediato non paiono toccare il nostro senso morale».
Per quanto riguarda invece l’etica delle neuroscienze, quale crede sia il limite morale a cui queste dovrebbero sottostare?
«L’amore per la conoscenza è l’unica vera differenza tra noi e il resto del mondo animale. Chiedersi il perché delle cose, immaginare il futuro è ciò che appartiene in esclusiva all’uomo. Per il resto anche quelle funzioni che ci piace ritenere peculiari dell’essere umano sono in realtà rintracciabili anche in altre specie, si pensi all’empatia, alla teoria della mente, ad esempio. Chiunque abbia un cane sa che queste sono capacità sono presenti anche in loro.
Dunque l’essere umano è per sua natura animato dalla voglia di conoscenza. Questo percorso di conoscenza non può prescindere dal rispetto della libertà altrui».