La forza del cambiamento che arriva dalla Cop21
Un nuovo bazooka contro la bolla del carbonio è armato, ora sta a tutti noi decidere di usarlo
Quello uscito dalla Cop21, la Conferenza Onu sul clima che si è finalmente chiusa a Parigi, è un accordo insufficiente. I contributi per il contenimento dei cambiamenti climatici presentati dai vari governi restano quelli pre-conferenza, che come noto portano a un aumento della temperatura al di sopra dei 3°; nonostante ciò, non sono comunque previsti meccanismi vincolanti e sanzioni a livello internazionale in grado di mantenere la barra dritta. Inoltre – e non è un caso che tra le realtà più critiche verso l’accordo ci siano le associazioni più attente alla dimensione sociale, insieme ai sindacati – l’accordo sul clima uscito dal summit di Parigi «non scongiura l’impatto dei cambiamenti climatici sui paesi più poveri del pianeta», per dirla con le parole di Oxfam, né si preoccupa per «la giusta transizione dei lavoratori e il diritto al lavoro dignitoso», colonna centrale del progresso verso i green job: una lacuna sottolineata con forza dalla Cgil come dall’Etuc.
Tutto questo non può essere taciuto nel nome dell’ottimismo. Eppure non si può trascurare neanche l’altro lato della medaglia, che stavolta pesa come non mai. Pur con dei distinguo l’accordo sul clima di Parigi è stato salutato con soddisfazione dall’Unep come dall’Irena (l’International renewable energy agency), dalle principali associazioni ambientaliste come da ong trasversali. Il perché è presto detto. Mai prima d’ora 196 “parti” (ovvero 195 paesi più l’Ue) avevano siglato un accordo per contrastare i cambiamenti climatici, e men che meno si erano dette d’accordo nel mantenere l’aumento di temperatura media globale «ben al di sotto dei 2°C».
L’accordo di Parigi «probabilmente rappresenta il più importante accordo internazionale nella storia», ha dichiarato un entusiasta Achim Steiner, direttore esecutivo dell’Unep, e proprio nell’entusiasmo che è riuscito a muovere risiede il lasciato più importante della Cop21. Quel che davvero è necessario per una lotta serrata ai cambiamenti climatici è un profondo cambiamento nel modello di sviluppo, un mutamento economico di cui già oggi vediamo le prime avvisaglie.
E l’economia, come sappiamo, si nutre di aspettative. Per raggiungere l’obiettivo di “zero emissioni nette” entro la seconda metà del secolo, come chiede l’accordo di Parigi, i due terzi delle riserve di combustibili fossili deve rimanere sottoterra. La Cop21 può rappresentare per gli investitori internazionali ciò che Mario Draghi ha rappresentato per la stabilità della zona euro: il suo celebre “faremo qualunque cosa sia necessaria per salvare l’euro” è stato il vero bazooka che mise al riparo le sorti della moneta unica, sparigliando le aspettative economiche allora sul tavolo.
Oggi la Cop21 invia un messaggio altrettanto potente. «Quando gli investitori si renderanno conto che larga parte delle riserve di combustibili fossili non potranno essere più bruciate – si legge in un recente report dei Verdi europei – le compagnie produttrici di energia potrebbero perdere tra il 40 e il 60% del proprio valore in borsa. Banche, compagnie di assicurazione e fondi pensione hanno investito più di un trilione di euro in combustibili fossili – anche denaro dei contribuenti. Ora corrono il rischio di grosse perdite, in particolare se la politica non dovesse agire con determinazione».
Questo rischio oggi è alle porte, ma lo scoppio della cosiddetta “bolla del carbonio” spalanca le porte alla green economy. Che, beninteso, non significa solo energie rinnovabili ma anche economia circolare ed efficienza nell’utilizzo delle risorse naturali. Un’esigenza che ancora rimane in secondo piano ma è più che mai pressante: «Il 23% dei beni prodotti dalla nascita di Cristo a oggi è stato prodotto dopo il 2000 – ha spiegato durante il recente Forum Greenaccord l’economista Leonardo Becchetti – e ciò dimostra l’esigenza urgente di passare ad un’economia circolare».
Per chiudere finalmente il cerchio tutti noi siamo chiamati a fare la propria parte. «Le lancette dell’orologio del pianeta correranno velocissime – sottolineano gli esponenti di Green Italia Francesco Ferrante e Roberto Della Seta – e non si possono perdere altri otto anni: occorre avviare subito un impegno globale per poter allineare gli attuali impegni alla traiettoria dei 1.5-2°C prima del gennaio 2021, quando il nuovo accordo sarà operativo. A guidare questa nuova sfida deve essere l’Europa, e ci auguriamo che l’Italia faccia la propria parte, schierandosi senza indugi per un impegno di riduzione del 40% al 2030 delle emissioni». Perché l’obiettivo venga raggiunto una richiesta pressante deve arrivare anche dagli elettori, dai cittadini, che hanno contribuito non poco all’accordo di Parigi.
«Quando nel 2014 il segretario generale dell’Onu ha aperto il vertice sul clima dopo che centinaia di migliaia di persone avevano marciato per le strade di New York – ha ricordato a Parigi Christiana Figueres, direttrice Unfccc – è stato lì che abbiamo capito che avevamo la forza della gente dalla nostra parte». Le idee sono ormai in cammino: si stanno già cristallizzando in capitale politico, e da qui in forza di cambiamento. Siamo tutti parte di questo processo, e chiamati in causa per decidere da che parte stare.