La fragile eredità climatica di Obama
L'accordo di Parigi ostaggio della maggioranza repubblicana al Congresso e del prossimo presidente USA
Come scrive Sarah Wheaton su Politico, «Barack Obama vuole essere ricordato come il presidente che ha salvato il mondo dal cambiamento climatico. Ma l’accordo delle 195 nazioni volto a contenere il riscaldamento globale potrebbe essere il più fragile dei suoi successi presidenziali ottenuti finora. Più di ogni suo altro top accomplishments – la ripresa economica, la riforma sanitaria, l’accordo con l’Iran, ognuno dei quali ha coinvolto in qualche misura il Congresso – l’eredità ambientale di Obama si basa sull’esercizio del potere esecutivo, nonostante le obiezioni dei legislatori repubblicani».
Anche quando ha annunciato l’accordo di Parigi, Obama ha sottolineato che questo è avvenuto nonostante gli atti ostili della maggioranza repubblicana alla Camera e al Senato e ha citato i nuovi limiti per le emissioni delle centrali elettriche, gli investimenti nelle energie rinnovabili, l’accordo climatico con la Cina, tutte iniziative che ha preso da solo e con l’appoggio, a volte non entusiasta , della minoranza democratica al Congresso. «Oggi grazie alla iniziale forte leadership americana – ha detto Obama – lasceremo ai nostri figli un mondo che è più sicuro, più prospero e più libero, e questa è la nostra missione più importante nel nostro breve tempo qui su questo terra».
Ma se è vero che senza l’imposizione dell’autorità presidenziale di Obama probabilmente la COP21 Unfccc di Parigi sarebbe stata un nuovo fallimento, è anche vero che il suo successo finale è nelle mani della prossima amministrazione statunitense. Non a caso il leader della maggioranza repubblicana al Senato, l’ecoscettico Mitch McConnell, ha subito ribattuto che «Il presidente sta facendo promesse che non può mantenere» e ha giurato che i repubblicani renderanno la vita molto dura a Obama, accusato più o meno di voler rovinare la classe media «per prendersi il merito di un “accordo” che potrebbe essere stracciato entro 13 mesi». E i repubblicani, se si da loro la possibilità, mantengono le promesse fatte ai loro finanziatori delle Big Oil e dei King Coal, come hanno dimostrato con l’ostruzionismo parlamentare e le azioni legali contro ogni regolamentazione delle emissioni di gas serra approvata dall’Environmental Protection Agency su input della Casa Banca.
La destra statunitense, intrisa di millenarismo ascientifico e di cinismo politico, non nasconde il suo ecoscetticismo che ormai cozza persino contro la consapevolezza della maggioranza dell’elettorato repubblicano che il cambiamento reale è in atto e che è un pericolo per gli USA. Ma la cosa più intollerabile per i repubblicani è che l’accordo di Parigi, che coinvolge gli altri grandi inquinatori come Cina e India, rappresenta un trionfo politico per Obama e dimostra che i programmi climatici e a favore delle rinnovabili di Hillary Clinton, di Bernie Sanders e di altri candidati democratici alla presidenza Usa sono non solo praticabili ma saranno la politica climatica ed energetica del futuro. La COP21 di Parigi ha dimostrato plasticamente che mentre la destra statunitense è ferma il resto del mondo è in movimento.
Ma Obama per i repubblicani è andato ancora più “intollerabilmente” oltre: non solo si è vantato del fatto che gli USA avrebbero tagliato le loro emissioni di CO2 più di ogni altro Paese sviluppato anche con la ripresa economica in corso, ma ha anche definito una “falsa scelta” contrapporre l’ambiente alla creazione di posti di lavoro e, soprattutto, ha messo fine al mantra delle amministrazioni di Gerge W. Bush, secondo il quale gli USA non dovevano smettere di inquinare se non lo facevano anche gli altri (leggi Cina e India). Nonostante le profezie di sventura dei repubblicani le bollette dell’energia elettrica non sono esplose e le tecnologie verdi non hanno fatto perdere nemmeno un posto di lavoro.
Obama, che è stato spesso accusato di “indecisionismo”, con la sua forte assunzione di responsabilità climatica ha spianato la strada per l’accordo di Parigi e il no definitivo al gigantesco oleodotto Keystone XL è stato il suggello di una strategia prudente ma concreta, nella quale non sono mancati passi falsi, come le trivellazioni nell’Artico, che sono stati provvidenzialmente corretti dalle situazioni climatiche proibitive a dal calo del prezzo del petrolio. Va anche dato atto ad Obama – ed ai suoi segretari di Stato Hillary Clinton e John Kerry – di essere riusciti a recuperare terreno rispetto ai (giustificati) sospetti dei Paesi in via di sviluppo sulle reali intenzioni degli USA dopo il fallimento della COP Unfccc di Copenaghen. E’ da quel paziente lavoro di ricucitura che è nato l’accordo di un anno fa con la Cina che ne aveva bisogno sia per i giganteschi problemi ambientali interni, sia perché si è trovata a sua volta in forte imbarazzo a livello internazionale quando è venuto fuori che aveva fortemente sottostimato le sue emissioni climalteranti.
Eppure, mentre a Parigi si stava faticosamente trovando un accordo, a Washington i repubblicani stavano mercanteggiando un accordo per far passare il bilancio USA che prevede la fine del divieto quarantennale di esportazione di greggio americano. Una norma approvata negli anni ’70 ai tempi della crisi energetica, che avrebbe un ridotto impatto climatico ma che rappresenterebbe una sconfitta per il movimento ambientalista statunitense, riaprendo una crisi di fiducia di questo importante pezzo di elettorato democratico (o meglio anti-repubblicano) con la Casa Bianca e i candidati democratici alla presidenza.
Subito dopo l’annuncio dell’accordo di Parigi, considerato comunque un notevole passo avanti dalle grandi associazioni ambientaliste, diverse ONG hanno espresso il loro disappunto per gli scarsi finanziamenti dati ai Paesi poveri per la transizione alle energie rinnovabili e per la volontarietà degli impegni per mantenere l’aumento delle temperature globali entro i 2 gradi centigradi, figuriamoci gli 1,5° C.
Secondo Lindsey Allen, la direttrice di Rainforest Action Network, «La soglia per la leadership climatica è chiara: collegare l’inclusione dei diritti umani e degli indigeni, significativi finanziamenti alle nazioni meno sviluppate, ad un un target di 1,5 gradi e a un impegno a fissare obiettivi di riduzione più forti nei prossimi anni, con maggiori riduzioni nazionali ora. Così, anche se il presidente Obama ha apportato una necessaria correzione di rotta rispetto alle precedenti amministrazioni ostruzionistiche, cerchiamo di essere chiari: un leader climatico è quello che utilizza pienamente ogni leva di fronte a questa sfida globale. E Obama deve ancora superare quell’asticella». La Allen chiede a Obama di cominciare a far vedere che fa sul serio vietando subito le trivellazioni petrolifere nelle public lands.
Ma la più grossa associazione ambientalista USA, Sierra Club, continua a fidarsi di Obama e il suo direttore Michael Brune sottolinea che «La leadership e l’azione decisiva del presidente Obama e di altri leader mondiali, un sempre più potente movimento per il clima e i notevoli progressi negli Stati Uniti e nel mondo per uscire dal carbone hanno spianato la strada ad ogni nazione per venire al tavolo dei negoziati. Questo storico accordo internazionale è quello che il popolo americano chiedeva, ciò che le generazioni future meritano, e ciò di cui il mondo ha bisogno».
Anche Obama ha riconosciuto che l’Accordo di Parigi non risolve il problema del cambiamento climatico ma ha aggiunto che «Aiuterà ritardare o evitare alcune della peggiori conseguenze del cambiamento climatico e aprirà la strada a maggiori progressi nelle fasi successive nel corso dei prossimi anni. Quindi credo che questo momento può essere un punto di svolta per il mondo. Abbiamo dimostrato che il mondo ha sia la volontà che la capacità di assumere questa sfida».
Ora bisognerà vedere se anche gli elettori americani hanno davvero capito il senso e l’enormità di questa sfida o se, con il loro voto, consegneranno nuovamente il Paese e l’economia più potente del mondo nelle pericolosissime mani di chi questa sfida la nega nel nome di un business vecchio, sporco e cattivo.