La pandemia da coronavirus sta colpendo il cuore dell’Amazzonia, soprattutto in Brasile
La minaccia più grave per i popoli indigeni viene dalle attività di estrazione di legname, oro e petrolio, che ora veicolano nell’area Covid-19
L’epidemia di coronavirus avanza in tutta l’Amazzonia con tassi di crescita esponenziali: il dato rilevato il 12 aprile dalla Red Eclesiastica Panamazonica parla di 2443 contagi e 115 decessi ufficiali. Solo una settimana prima erano 1550 e 49. L’aumento è, rispettivamente, del 55% e del 135%. È il Brasile il paese più colpito, fra i 9 stati sudamericani che ospitano la grande foresta pluviale e la sua gente: 1072 i contagi, 54 i decessi. In una settimana le persone raggiunte dal virus sono quadruplicate. Quelle che hanno perso la vita aumentate di dieci volte.
Alla luce di questi numeri, cresce l’allarme e la paura fra i popoli indigeni: i più vulnerabili di fronte al contagio, perché discriminati nell’accesso ai beni e ai servizi e lontani dai centri di cura. Spesso anche indifesi di fronte alla malattia, in particolare quelli fra loro che sono entrati in contatto recentemente con il mondo esterno, e quelli che hanno scelto di vivere in isolamento per conservare l’integrità della propria cultura e delle proprie terre. E sono privi per questo di ogni protezione immunologica contro i virus esterni.
Per tutte le comunità amazzoniche, ma per loro soprattutto, chiudere i territori e controllare l’accesso di ogni persona estranea è questione di vita o di morte. La chiusura dei territori, affermano, è una regola che deve valere per tutti, anche per i coloni, i turisti, i missionari. Ma la minaccia più grave viene soprattutto dalle attività legali e illegali di estrazione di legname, oro, petrolio. Una minaccia che le misure di contenimento adottate dai governi non hanno finora arrestato, per debolezza e incoerenza ma soprattutto per assenza di volontà.
«Fino a questo momento, sono state le stesse organizzazioni indigene che hanno adottato misure preventive, e cercato appoggio per impedire l’entrata di attori esterni ai propri territori»: La denuncia è di “Acciòn Urgente”, un appello che le tre grandi confederazioni indigene dell’Ecuador hanno lanciato il 26 marzo scorso, e che punta il dito anche sull’assenza di una strategia di comunicazione e informazione culturalmente adeguata per prevenire la diffusione del virus, e sulla minaccia rappresentata dalla militarizzazione dei territori con il pretesto di fermare il contagio.
Acciòn Urgente è un vero e proprio manifesto che indica la strada da seguire per garantire il diritto alla salute e alla vita delle comunità indigene, nel rispetto della loro integrità culturale e ambientale.
Una strada dove sono segnalati con chiarezza le pietre miliari che dovrebbero orientare il cammino: oltre alla risposta puntuale alle carenze e minacce segnalate più sopra, il riconoscimento ufficiale dello status di particolare vulnerabilità delle comunità indigene alla pandemia di Covid-19; l’inclusione dei popoli indigeni nei piani di emergenza per fronteggiare la pandemia, compresa la distribuzione alle unità sanitarie locali di prodotti per la protezione del personale, l’igiene individuale, e farmaci; la creazione immediata di tavoli tecnici e di coordinamento, dal livello nazionale a quello locale, con una adeguata rappresentanza delle popolazioni indigene, per gestire al meglio e con cognizione di causa l’emergenza e garantire alle comunità assistenza sanitaria e sicurezza alimentare.
Azione urgente: perché non c’è davvero tempo da perdere, i numeri sulla crescita dell’epidemia non lasciano dubbi in proposito. È ormai arrivata anche la notizia della prima persona a morire di coronavirus fra gli Yanomani, la nazione del grande sciamano Dave Kopenawa, fra le più combattive nel difendere la propria cultura e la propria terra, nel custodire la propria casa e il cuore verde del nostro pianeta. La notizia che non avremmo mai voluto ricevere: un ragazzo di 15 anni che ha contratto il virus in un’area dove i cercatori d’oro continuano indisturbati le loro attività illegali, e che se ne è andato per una crisi respiratoria acuta che nessuno ha potuto curare.