La sconfitta del regionalismo e la nuova insostenibile complessità della Carta costituzionale
Con la farraginosa riformulazione dell'art. 117 i rischi di contenzioso si moltiplicheranno a dismisura, piuttosto che diminuire
La riscrittura in corso dell’art. 117 Cost., e cioè del riparto di competenze legislative fra Stato e Regioni, suggerisce alcune riflessioni. Il regionalismo, all’indomani della Costituente (Salvemini descrisse la disciplina costituzionale del Titolo V come un “vaso vuoto con sopra la targhetta Regione”) riverberò immediatamente su di sé l’insostenibile compromesso che ne aveva caratterizzato la genesi.
Paladin ebbe a sostenere che dal Titolo V della Costituzione «non si ricavavano elementi atti a configurare quei congegni di collaborazione fra le Regioni e lo Stato, che pure sono affatto indispensabili in un sistema modernamente fondato sul metodo della programmazione globale delle attività pubbliche».
A lungo si è disquisito sul ruolo e sui confini della legislazione “secondaria” o “concorrente” (o “complementare”) attribuita alle Regioni, secondo le materie individuate nell’originario art. 117 Cost. e nei limiti «dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato».
Peraltro nelle “leggi cornice” spesso è stata rinvenuta, dalla dottrina regionalista, una ingerenza, quasi una esautorazione delle facoltà legislative regionali, costrette a dispiegare soltanto un eccesso di burocratismo d’attuazione.
La riforma del Titolo V operata nel 2001, di aspirazione federalista, ricostruiva il rapporto nelle competenze legislative, individuando delle materie di legislazione esclusiva dello Stato, delle materie di legislazione concorrente e, con una norma di chiusura, rimettendo alle regioni la competenza per materie non appartenenti agli insiemi riservati.
Fra i punti deboli della riforma poterono annoverarsi la genericità delle indicazioni delle materie (si pensi alla locuzione “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”), la difficoltà delle regioni a costruire normative sufficientemente autonome e non invasive della legislazione esclusiva, la perdurante vigenza di obsolete “leggi cornice”, le pronunce della Corte costituzionale tendenzialmente orientate a mantenere l’impianto quo ante.
Nel mezzo, il buco nero delle materie di legislazione concorrente, fra l’inerzia o l’erosione del regionalismo da parte del legislatore statale e l’accensione di conflitti spediti sul tavolo decisionale della Consulta.
Nell’attuale riforma si assiste a un drastico dietrofront e, di fatto, ad una demolizione sostanziale del regionalismo a favore di un ritorno alla centralizzazione statale.
L’accadimento fa riflettere e fa sovvenire in maniera significativa l’immagine di background delle vicende dell’Ilva di Taranto (salvata con leggi-provvedimento), della petrolizzazione dell’Adriatico, delle grandi infrastrutture, sulle quali tutte si è spesso innescato un nimby di carattere regionale che, innanzitutto, ha stigmatizzato l’assenza di ogni forma di concertazione stato-regione, per la programmazione di opere ad alto impatto ambientale e quindi di notevole riverbero sociale.
Spicca, poi, la distonia con il difficile sviluppo della giurisprudenza costituzionale sull’art. 117 comma 2 lett. s), per la quale la dottrina giuspubblicistica è arrivata, grazie alla confusione ingeneratasi, a parlare addirittura di “intreccio di competenze”. Sembrerebbe, cioè, che la ripartizione della competenza legislativa sia stata stiracchiata da un lato e dall’altro a seconda della dimensione e della rilevanza degli interessi sottesi. Sullo sfondo sembra di potersi immaginare la perdita totale di rilevanza democratica delle autonomie e delle realtà locali. Questo induce a dover rimeditare per intero gli effetti della costruzione non più regionalista dello Stato italiano.
Tornando al novellato art. 117 Cost. si rinviene un dettaglio che non appare degno di essere ricompreso in una Carta costituzionale e che, per giunta, contiene locuzioni di difficile interpretazione o, meglio, anche difficile comprensione.
Non è chiaro, ad esempio, il senso di riservare allo stato la materia della “valorizzazione” dei beni culturali e paesaggistici; e, per l’effetto, le conseguenze sui rimanenti poteri legislativi regionali. Allo stesso modo può dirsi per la “programmazione strategica della ricerca scientifica e tecnologica“, oppure per le “disposizioni generali e comuni sulle attività culturali e sul turismo“. Non è dato nemmeno sapere con certezza cosa possa intendersi per “ordinamento della comunicazione“.
Nel mentre poi l’art. 117 Cost. “post 2001” stabiliva le materie di legislazione concorrente e lasciava una norma di chiusura secondo cui sarebbe spettata alle regioni la potestà legislativa per ogni materia non riservata allo Stato, oggi abbiamo una struttura molto più complessa.
Ci sono, infatti, le materie riservate allo stato, con quelle pericolose definizioni ampie e poco circoscritte (alcune fra le tante) appena viste, c’è un insieme di materie riconosciute di competenza regionale («rappresentanza in Parlamento delle minoranze linguistiche, di pianificazione del territorio regionale e mobilità al suo interno, di dotazione infrastrutturale, di programmazione e organizzazione dei servizi sanitari e sociali, di promozione dello sviluppo economico locale e organizzazione in ambito regionale dei servizi alle imprese; salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche, in materia di servizi scolastici, di istruzione e formazione professionale, di promozione del diritto allo studio, anche universitario; in materia di disciplina, per quanto di interesse regionale, delle attività culturali, della promozione dei beni ambientali, culturali e paesaggistici, di valorizzazione e organizzazione regionale del turismo, di regolazione, sulla base di apposite intese concluse in ambito regionale, delle relazioni finanziarie tra gli enti territoriali della Regione per il rispetto degli obiettivi programmatici regionali e locali di finanza pubblica»), c’è una fattispecie di chiusura in favore del legislatore regionale («nonché in ogni materia non espres-samente riservata alla competenza esclusiva dello Stato»), ma c’è un’ulteriore riserva in favore dello Stato («su proposta del Governo, la legge dello Stato può intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale»).
L’unica considerazione quasi scontata è che su tale farraginosa riformulazione dell’art. 117 Cost. i contenziosi avanti la Consulta probabilmente si moltiplicheranno a dismisura, piuttosto che diminuire. E ciò anche perché una riforma così consistente comunque abbisogna di una “sedimentazione” operativa del tutto fisiologica e che, guardando a vicende del passato (come ad esempio alla promulgazione del d.p.r. 616/1977), impegnerà almeno un paio di decenni.
Forse sarebbe stato più semplice e meno macchinoso, visti gli intenti, ritornare ad una riformulazione della medesima norma costituzionale con la sola precisa indicazione delle materie riservate alla legislazione regionale, in chiave più moderna e di migliore rispetto d’autonomia.
Le complicazioni, soprattutto nella Carta fondamentale di uno Stato, non giovano mai e la teoria generale del diritto ce lo insegna da secoli. Oppure, nell’ignoranza, forse sarebbe stato il caso di guardare alle altre Costituzioni, laddove norme di dettaglio come quelle in inventiva attualmente non ve ne sono affatto.
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