La storia ambientale e la sinistra, l’Italia vista con gli occhi di Giorgio Nebbia
L’uomo è figlio dell’era glaciale. È innegabile che quella che comunemente chiamiamo civiltà sia nata nel Vicino Oriente, qualche millennio d’anni fa, anche grazie al fondamentale contributo di un contesto climatico favorevole – il riscaldamento globale dell’Olocene –, ma il confronto con la storia ambientale del nostro pianeta e il suo paleoclima ci suggerisce come per la maggior parte del tempo la Terra sia stata ben più calda di quella che l’homo sapiens ha imparato a conoscere. Basti pensare nel 95% della sua storia il pianeta non abbia conosciuto cosa fosse il ghiaccio permanente. Altre volte ancora, se visto dallo spazio, il cosiddetto pianeta blu avrebbe avuto piuttosto l’aspetto di un’immensa palla di neve.
In quest’inizio del XXI secolo le temperature stanno salendo di nuovo, e stavolta con il contributo innegabile dell’attività antropica. L’allarme è puntato su di un nuovo riscaldamento globale, e l’azione urgente. Ma azione per cosa, e in attesa di quali cambiamenti nel nostro stile di vita? La bussola per queste risposte sta nella storia ambientale, anche se troppo facilmente si tende a dimenticarlo.
Una disciplina, la definisce Luigi Piccioni nella prefazione del libro da lui curato (Scritti di storia dell’ambiente e dell’ambientalismo 1970-2013), che «si occupa dell’evoluzione storica degli ambienti naturali, della loro influenza sulle società umane, del modo in cui le seconde hanno interagito con i primi, delle visioni della natura elaborate nel corso del tempo da individui e gruppi e – infine – delle politiche adottate per gestire ordinatamente il rapporto uomo-ambiente».
Il volume in questione, pubblicato tra i quaderni di Altronovecento, raccoglie un’accurata selezione degli scritti pubblicati da Giorgio Nebbia – ambientalista, professore emerito di Merceologia, politico – lungo la sua pluridecennale carriera. Per il pubblico italiano offre uno spaccato unico sul panorama della storia ambientale, in quanto ne ripercorre le svolte con l’occhio di un ambientalista che ha segnato lo sviluppo (e le titubanze) nella sensibilità ecologica del Paese, «sin da anni in cui di storia ambientale neanche si parlava».
Piccioni ricorda che «il passato è prologo, la frase di Shakespeare incisa ai piedi di una delle statue che ornano la facciata dei National Archives di Washington e che Nebbia ama spesso citare. Il passato spiega insomma il presente e ha il potere di orientarlo, e da esso non si puo prescindere. Tutta l’opera di Nebbia, nelle sue vesti di ricercatore, di docente, di attivista, di amministratore, è quindi pervasa da un bisogno costante di collocare precisamente processi e fenomeni nella loro traiettoria storica».
In tempi in cui in Italia talvolta vacilla la definizione stessa di ambientalismo – stretta tra i molti che lo interpretano come una cultura del no a tutto, e altri come quella di semplice greenwashing –, e parallelamente ad essa quella politica di sinistra, l’opera di Nebbia può essere utile per riannodare in entrambi i campi alcuni dei fili perduti negli anni.
Il perché di quest’unione tra politica e ambiente è molto semplice. «Le interazioni fra comportamento umano e natura dipendono – sottolinea Nebbia – dal sistema sociale adottato dagli esseri umani che occupano una parte di un territorio o che occupano l’intero pianeta».
A sinistra c’è ancora qualcuno che sembra vedere nell’ecologia «la scienza delle contesse», per la sua provenienza indubbiamente borghese – e come se questa fosse a prescindere una colpa. Ma non è forse nata in ambiente borghese anche «la protesta contro le condizioni di lavoro e lo stesso movimento socialista»? Nebbia questo lo ricorda, e scomoda addirittura Marx per indicare una ricetta che «consenta di usare le ricchezze della natura per soddisfare bisogni umani senza distruggerne le fonti e le radici».
«Marx – annota Nebbia – indica tale ricetta nella socializzazione dei beni della natura, un problema che affronta nella sesta sezione del III libro del Capitale:
“Dal punto di vista di una più elevata formazione economica della società, la proprietà privata del globo terrestre da parte di singoli individui apparirà così assurda come la proprietà privata di un uomo da parte di un altro uomo. Anche un’intera società, una nazione, e anche tutte le società di una stessa epoca prese complessivamente non sono proprietarie della Terra. Sono soltanto i suoi possessori, i suoi usufruttuari e hanno il dovere di tramandarla migliorata, come boni patres familias, alle generazioni successive”.
Sono le stesse parole – conclude Nebbia – che stanno alla base di tutti i tanto declamati discorsi sull’attenzione che si deve prestare alle future generazioni e sui guasti ambientali che ne possono compromettere le condizioni di salute e di vita; un principio che non potrà fare un passo avanti fino a quando la proprietà e lo sfruttamento individuale, privato, guidano le regole economiche relative all’uso delle risorse naturali».
Sono anche gli stessi ideali che animano il fondamento dell’economia ecologica e del suo rispetto dei limiti nell’estrazione delle risorse naturali (piuttosto che nelle emissioni climalteranti o dei rifiuti che da queste possono derivare) per rispettare le capacità di carico del pianeta, anche se le sue conclusioni non prescindono affatto da un’economia di mercato.
Entrambe le filosofie sono unite anche dalla fiducia nella tecnica, che – come ancora una volta riassume Nebbia – è «destinata ad avere un ruolo fondamentale nella gigantesca sfida fra i mezzi per soddisfare, secondo giustizia, i bisogni di una popolazione mondiale» che ancora cresce, e soprattutto invecchia.
Quali che siano i background culturali coi quali si approccia la relazione tra uomo e ambiente, e soprattutto si pensa al suo futuro, sono queste leve delle quali è bene continuare a fare tesoro, e più che mai preziose in un contesto dove le chiavi per interpretare la realtà che ci circonda si fanno sempre più incerte.