Occorre equità sociale nell’elaborazione delle politiche pubbliche
La transizione verde “inclusiva”, vista da Parigi
Mentre la Francia è paralizzata dalla protesta dei “Gilet gialli”, l’Ocse riflette sugli strumenti a disposizione per governare il passaggio alla green economy
Dal 27 al 29 novembre 2019 l’Ocse (l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) organizza a Parigi un interessante convegno dal titolo “Inclusive solutions for the green transition: competitiveness, jobs/skills and social dimensions”. L’evento fa coincidere la conferenza annuale del Ggkp (Green growth knowledge platform) con l’evento annuale dell’Ocse nell’ambito del Forum Ggsd (Green growth and sustainable development). Acronimi a parte, il tema del convegno e il luogo, Parigi, richiamano avvenimenti di pochi giorni fa: i “Gilet gialli”, un movimento di cittadini francesi, stanno paralizzando la Francia per contrastare la scelta del governo francese, già da tempo (2015) annunciata, di imporre una tassazione sulle emissioni di CO2 di 56€/tonnellata entro il 2020 (e 100€/tonnellata entro il 2030). La decisione del governo francese di allineare le imposte nette (imposte – sussidi) di benzina e, soprattutto, gasolio a livelli compatibili con gli obiettivi di riduzione delle emissioni è stata accolta con frustrazione e rabbia da quei francesi, spesso con redditi bassi e residenti lontani dalle grandi città, ‘costretti’ a utilizzare l’automobile privata per i loro spostamenti di lavoro e non.
I partecipanti al convegno, provenienti sia dalle università (tra cui due rappresentanti di Ecoquadro: il sottoscritto e Massimiliano Mazzanti) sia dalle istituzioni nazionali e internazionali, discuteranno dell’efficacia di soluzioni ‘inclusive’ per la transizione a un’economia verde. Come giustamente sottolineato recentemente su greenreport da Umberto Mazzantini riguardo ai “Gilet gialli”, politiche ambientali come la carbon tax vanno a colpire maggiormente le fasce economicamente più deboli (sono quindi ‘regressive’). Questo dato di fatto richiede un’attenta riflessione su tutti quei meccanismi di ‘compensazione’ che può offrire l’economia verde, o che si rendono necessari per mitigare effetti eccessivamente iniqui delle politiche di tutela dell’ambiente. L’obiettivo di questi strumenti di compensazione è duplice. Da un lato ci può un valore ‘intrinseco’ nel considerare criteri di equità sociale nell’elaborazione delle politiche pubbliche. Dall’altro, più pragmaticamente, la previsione di strumenti di compensazione si rende spesso necessaria per far sì che le politiche ambientali siano accettate dalla popolazione.
Un primo pilastro nel novero delle soluzioni inclusive riguarda quello del ruolo del lavoro e delle competenze nella transizione verso l’economia verde. Da un lato, politiche ambientali efficaci hanno l’obiettivo di favorire il cambiamento strutturale delle economie da settori ad alta intensità di risorse naturali e inquinamento verso settori con minori impatti ambientali. Questo implica la distruzione di posti di lavoro e la necessità di identificare un percorso di reinserimento lavorativo per quei lavoratori impiegati nei settori più inquinanti. D’altro canto, le politiche ambientali fungono da stimolo per l’adozione di nuove tecnologie, la cui adozione da parte delle imprese implica dei cambiamenti radicali del lavoro nelle imprese. Le professioni però non sono tutte uguali. Per questo motivo è fondamentale comprendere fino in fondo quali sono le ‘competenze’ che vengono distrutte dalla transizione verde (ad esempio quelle necessarie per la professione di ‘meccanico per la manutenzione di motori a combustione interna’), e quali sono invece le ‘competenze’ necessarie ad accompagnare la transizione verde.
Un secondo pilastro ha a che fare con la competitività dell’economia. Se da un lato le politiche ambientali penalizzano quei settori più inquinanti, occorre però considerare anche le opportunità economiche offerte da settori nuovi (ad esempio le attività di recupero dei materiali riciclati) o settori che si sono trasformati (ad esempio il settore della generazione di energia elettrica).
Un terzo pilastro ha a che fare con la dimensione ‘sociale’, in particolare per quanto riguarda le conseguenze delle politiche ambientali in termini di re-distribuzione del reddito. Le fasce di popolazione economicamente più deboli sono quelle che più hanno da perdere e da guadagnare dalla transizione verde. Le fasce ‘deboli’ hanno da guadagnare in quanto sono composte da quei gruppi sociali più esposti ai danni del degrado ambientale: inquinamento atmosferico, scarsa qualità dell’acqua, limitata capacità di prevenzione di danni derivanti da eventi naturali estremi (si pensi all’uragano Katrina che ha distrutto New Orleans nel 2005). Le fasce ‘deboli’ hanno però anche molto da perdere perché la transizione verde richiede ingenti investimenti sia pubblici che privati (inclusi investimenti delle famiglie) che dovranno essere finanziati, rispettivamente, con una tassazione più elevata e con risparmi privati.
Le fasce ‘deboli’ non hanno risorse sufficienti per investimenti ‘ambientali’ (ad esempio la coibentazione delle abitazioni per migliorare l’efficienza energetica o l’acquisto di un’auto ibrida o elettrica) il cui ritorno economico privato si concretizzerà solo in futuro. Inoltre, come nel caso francese dei ‘Gilet gialli’, le fasce deboli non possono neanche contare sulla fruizione di servizi pubblici efficienti (ad esempio il trasporto pubblico locale) come alternativa a soluzioni private non sostenibili dal punto di vista ambientale. Per questo la transizione verde necessita di essere governata, tenendo ben presente che la sostenibilità si regge su (solo) tre pilastri: quello ambientale, quello sociale e quello economico.