Lotta al cambiamento climatico e lavoro, l’Italia non ha un piano per la Giusta transizione
L'urgenza di affrontare il cambiamento climatico e le sue disastrose conseguenze non consente ritardi, ma a pagarne il prezzo non possono essere i lavoratori
Coniugare la lotta contro il cambiamento climatico con l’occupazione, i diritti dei lavoratori e delle comunità e lo sviluppo sostenibile è sempre stata la preoccupazione che ha guidato l’azione del movimento sindacale nei lunghi anni di partecipazione nel movimento per la giustizia climatica. Alcuni importanti risultati in questo ambito sono stati ottenuti, primi fra tutti: le linee guida per la Giusta transizione dell’Ilo e il riconoscimento del linguaggio della Giusta transizione nell’Accordo di Parigi, in cui le Parti si sono impegnate a tenere conto “dell’imperativo di una Giusta transizione per la forza lavoro e della creazione di posti di lavoro decorosi e di qualità, in linea con le priorità di sviluppo definite a livello nazionale”.
Purtroppo il divario tra le decisioni assunte a livello internazionale e le ambizioni e l’agire dei singoli governi è ancora molto ampio e spesso la politica continua a giustificare la mancanza di azione con il rischio di perdite di posti di lavoro, nonostante sia ormai provato che una transizione ben gestita può creare grandi opportunità occupazionali e di sviluppo sostenibile.
Una battaglia che il movimento sindacale sta portando avanti, sia a livello nazionale che internazionale, è quella per l’inserimento delle misure di Giusta transizione negli Ndc (contributi nazionali determinati). Questo significa che, quando un governo assume determinati impegni di riduzione delle emissioni, dovrebbe valutare anche gli impatti occupazionali negativi legati alla decarbonizzazione e individuare le misure necessarie per creare nuova occupazione e sostenere la ricollocazione dei lavoratori nella transizione. Le misure di Giusta transizione, infatti, attraverso un accordo tra governi, lavoratori e datori di lavoro hanno lo scopo di individuare gli strumenti concreti per garantire opportunità di lavoro nei settori che riducono le emissioni e aiutano l’adattamento al cambiamento climatico, fornire sostegno al reddito, riqualificazione e reinserimento dei lavoratori che perderanno il proprio lavoro nel settore fossile e sostenere l’innovazione tecnologica per una rapida transizione energetica.
Alcuni governi, come il Sudafrica, hanno già volontariamente inserito misure di Giusta transizione nei propri Ndc. La Scozia, invece, ha annunciato l’istituzione di una Commissione nazionale per la Giusta transizione che “consiglierà ai ministri scozzesi di adeguarsi a un modello economico sostenibile e efficiente sotto il profilo delle risorse in un modo equo che contribuisca ad affrontare le disuguaglianze e la povertà e a promuovere un mercato del lavoro equo e inclusivo”.
Il nostro Paese, come tanti altri purtroppo, ancora non ha fatto niente di concreto in questa direzione. Con la nuova Sen, di recente approvazione, il nostro paese ha deciso il phase out del carbone nella generazione elettrica entro il 2025. L’Italia ha anche aderito all’Alleanza globale per il phase out dal carbone, alleanza con cui si promuove l’impegno “per accelerare la crescita pulita e la protezione del clima attraverso la rapida eliminazione progressiva del carbone tradizionale, impegnandosi a raggiungere tale eliminazione in modo sostenibile e economicamente inclusivo, compreso un adeguato sostegno per i lavoratori e le comunità”.
Concretamente però non c’è nessuna valutazione degli effetti occupazionali di queste decisioni, ne tanto meno un’adeguata pianificazione della transizione. Il nostro Paese non ha un piano per la Giusta transizione, non ha ancora un piano clima-energia come richiesto dalla Governance europea, non ha un piano per la decarbonizzazione al 2050. Invece di fare consistenti investimenti in infrastrutture per le energie rinnovabili, la digitalizzazione delle reti, l’efficienza energetica degli edifici e la mobilità sostenibile, creando così occupazione e sviluppo di filiere sostenibili, l’Italia continua a spendere 16 miliardi annui di sussidi ambientalmente dannosi e alle fonti fossili.
L’obiettivo della Giusta transizione non si limita alle misure occupazionali, è più ampio: è quello di attivare un processo economico democratico e partecipato che produca i piani, le politiche e gli investimenti per determinare un futuro in cui tutti i lavori sono sostenibili e dignitosi, le emissioni nette sono azzerate, la povertà è eradicata e le comunità sono fiorenti e resilienti. Per questo la lotta per la Giusta transizione è anche una questione di potere e di democrazia, di accesso all’energia per tutti, di controllo sociale e democratico dell’energia e delle reti, di giustizia sociale, di diritti umani, di equità di genere, di difesa dei diritti delle popolazioni indigene. La Giusta transizione è lo strumento di lotta del movimento sindacale e di tutti i movimenti per la giustizia per trasformare l’attuale sistema profondamente ingiusto in un sistema radicalmente diverso, equo e sostenibile. Non riguarda solo la transizione energetica e la decarbonizzazione dell’economia, è una profonda trasformazione di sistema che deve vedere coinvolti tutti i settori della società civile.
La lotta per la giustizia climatica e la Giusta transizione vanno avanti allargando le alleanze, promuovendo la partecipazione delle comunità e dei popoli indigeni e contrastando nuove forme di colonialismo dei paesi sviluppati nei paesi del sud del mondo con grandi progetti di energie rinnovabili ma non sostenibili, perché distruttive per le popolazioni locali, quali grandi infrastrutture idroelettriche o impianti solari a terra di enormi dimensioni.
L’urgenza di affrontare il cambiamento climatico e le sue disastrose conseguenze non consente ritardi, che fra le altre cose, aggraverebbero le ingiustizie sociali. Per questo il movimento sindacale è protagonista attivo della lotta per la giustizia climatica, integrando gli obiettivi di sviluppo sostenibile in tutte le proprie battaglie e rivendicazioni.
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