Nel mondo ancora 923 milioni di persone senza fonti d’acqua potabile sicura
Cospe: «I programmi di supporto per la gestione delle risorse idriche fanno riferimento solo a poteri pubblici maschili, non riconoscendo il ruolo delle donne»
Secondo il World Water Council nel 2017, ben 319 milioni di abitanti dell’Africa Sub-Sahariana (il 32% della popolazione), 554 milioni di asiatici (il 12,5% della popolazione), e 50 milioni di sudamericani (l’8% della popolazione) non hanno accesso a fonti di acqua potabile sicura. Tra queste regioni, la Papua Nuova Guinea ha la disponibilità minore (solo il 40% degli abitanti ha accesso a fonti di acqua pulita); seguono la Guinea Equatoriale (48%), l’Angola (49%), il Ciad e il Mozambico (51%), la Repubblica Democratica del Congo e il Madagascar (52%), e l’Afghanistan (55%).
Dati che continuano ad essere allarmanti nonostante nel 2010 con una risoluzione delle Nazioni Unite il diritto umano all’acqua sia stato inserito tra i diritti fondamentali dell’uomo e nel 2015 a seguito di un lavoro congiunto di organizzazioni non governative, società civile e istituzioni, l’assemblea generale abbia adottato il consenso per una nuova risoluzione, che per la prima volta ha riconosciuto la distinzione tra il diritto umano all’acqua e il diritto umano ai servizi igienico-sanitari, ponendo l’accento su due definizioni maggiormente dettagliate.
Il riconoscimento dei diritti umani – indicati al plurale – all’acqua e ai servizi igienico sanitari come diritti distinti, riflette l’accurata comprensione della necessità di un standard di vita degno, come definito nelle leggi del diritto internazionale. La chiarificazione effettuata dalla risoluzione del 2015 è stata fondamentale per assicurare che i governi potessero dare maggiore e specifica attenzione ai bisogni che derivano dalle particolari esigenze biologiche per donne e ragazze, legate alla fruibilità di acqua pulita e la necessità di un ambiente favorevole per una buona igiene, per il parto e per le cure post-partum o semplicemente per gestire il ciclo mestruale. Questo focus è stato voluto perché gli Stati Membri stanno ulteriormente implementando l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile e stando alla precedente Agenda, i servizi igienico sanitari sono stati uno dei punti più trascurati.
Gli impatti fortemente negativi proprio sui gender speficic human rights si evincono anche da quanto sia diffusa in molti contesti la stigmatizzazione associata al periodo mestruale, quando acqua e servizi sono inadeguati e come ciò possa condizionare negativamente la possibilità di frequentare spazi pubblici come le scuole. Quando gli istituti scolastici non dispongono di un bagno privato o di servizi, le ragazze possono trovarsi costrette ad andare a casa per gestire il proprio ciclo mestruale, perdendo così il tempo necessario alle lezioni, penalizzando la loro crescita culturale e sociale. La risoluzione del 2015 riconosce anche il crescente rischio del cosiddetto gender based violence, la violenza maschile di genere, che si riferisce ai problemi di sicurezza derivanti dall’esperienza di donne e ragazze che praticano defecazione all’aperto o che sono costrette ad accedere ai servizi igienici lontano dalle loro case. Questo accade anche perché sono proprio le donne e le bambine a doversi allontanare da casa a decine di km di cammino, per poter raccogliere l’acqua e portarla alla comunità in cui vivono.
Stando alle stime del World Water Assessment Programme dell’Unesco, il 45,2% dei Paesi al mondo non produce nessun tipo di monitoraggio rispetto alle statistiche sulle tematiche di genere collegate all’acqua e ai servizi igienici. Anche l’’acqua è una questione di genere, sebbene le donne svolgano un ruolo fondamentale nella fornitura, nella gestione e nella tutela delle risorse idriche, la disuguaglianza di genere per questo aspetto continua a persistere in tutto il mondo.
Debora Angeli, responsabile Politiche di Genere di COSPE, ribadisce inoltre che «i programmi di supporto per la gestione e la distribuzione delle risorse idriche fanno riferimento solo a poteri pubblici maschili, non riconoscendo il ruolo delle donne. Occorre quindi ripensare gli aspetti gestionali dei progetti di cooperazione, individuando fin dall’inizio un’interlocuzione con gruppi di donne per poterle coinvolgere nei processi decisionali delle loro comunità e regioni».
di Marirosa Iannelli, Advocacy Officer for Water and Land COSPE Onlus