Neuroscienze e trappole nella ricerca: occhio alla bufala (e al salmone)

Lo sviluppo delle neuroscienze, insieme alla dinamica esponenziale con cui crescono le capacità computazionali, ha rappresentato e rappresenta per la ricerca accademica un’enorme opportunità, come dimostra il crescente numero di pubblicazioni a livello mondiale nel ramo.

Il potenziale è sicuramente alto: riuscire a mappare il cervello in vivo con immagini sempre più precise  in termini di risoluzione e potere, allo stesso tempo, effettuare test statistici robusti sulle stesse immagini offre l’opportunità, in prospettiva, di fondare una scienza della decisione e dell’analisi del comportamento con basi neurologiche empiriche incontestabili.

Come ogni scienza giovane, tuttavia, serve calma e molta prudenza, soprattutto laddove l’approccio neuro-scientifico è utilizzato per altre discipline, quali l’economia. E la prudenza è suggerita dagli stessi neuro-scienziati. La scorsa estate, durante il mio breve periodo di visiting al Laboratorio del Professor Martin Monti (UCLA), un ricercatore del gruppo, Evan Lutkenhoff, mi illustrava la metodologia rigorosissima con cui vengono effettuati gli esperimenti all’interno del laboratorio.

E mi ha fatto leggere, come caveat da tenere sempre in mente, un articolo scientifico molto famoso all’interno della comunità accademica che fa studi attraverso l’fMRI (Functional Magnetic Resonance Imaging), la risonanza magnetica funzionale.

L’articolo è stato pubblicato da una rivista che ha un titolo molto divertente: Journal of Serendipitous and Unexpected Results. La questione però è estremamente seria. È un lavoro ormai vecchio di 4 anni, che avvertiva rispetto al rischio, nell’utilizzo di questa tecnologia, di incorrere con una probabilità non trascurabile in quello che viene chiamato errore del false positive (falso positivo), l’errore di chi afferma l’esistenza di una relazione statistica tra due variabili quando, invece, questa relazione non esiste.

Craig Bennet, autore dell’articolo, dell’Università di California (Santa Barbara) effettuò lo studio su un cervello che veniva sottoposto a scansione e che mostrava un’attività neuronale molto forte.

Il cervello era quello di un bel salmone lungo diciotto once e del peso di tre libbre e mezzo.

Il piccolo particolare è che il salmone era morto.

In realtà, non c’è  nessun miracolo nel trovare vita in un cervello morto: l’intento di Bennet era proprio quello di avvisare i ricercatori della comunità accademica sulla possibilità di incorrere facilmente in madornali cantonate. Nulla di male: lo stesso autore ricorda pure che esistono molteplici tecniche statistiche adatte a correggere l’errore ed Evan, a distanza di anni, mi diceva che il problema è stato ampiamente risolto.

Il fatto, tuttavia, rappresenta ancora una volta un monito: la ricerca scientifica va fatta con rigore e metodo.

Bennet, infatti, mostra dei dati inquietanti nell’introduzione del suo articolo: tra gli articoli pubblicati nel 2008 all’interno delle principali riviste neuro-scientifiche, il 26% di quelli usciti su NeuroImage commetteva lo stesso errore di metodologia volutamente simulato da Bennett con il cervello del salmone; la percentuale saliva a 32,5% per Cerebral Cortex e al 40% per Social Cognitive and Affective Neuroscience.

Ora, veniamo all’economia. Se la ricerca neuro-scientifica è ancora agli albori e avanza con prudenza sulla stimolante strada del progresso, la disciplina economica dovrebbe esercitare il doppio della prudenza, non foss’altro per una mera ragione pratica che introduce l’ultimo ragionamento di questo articolo.

Faccio mie alcune osservazioni di Ariel Rubinstein, dell’Università di Tel Aviv, uno dei padri della teoria dei giochi comportamentale. Rubinstein mostra prudenza nei confronti delle ricerche neuro-scientifiche in ambito economico per una questione non banale: il costo di queste ricerche.

A parte la necessità di disporre di una macchina per la risonanza magnetica funzionale (il che, già, per un dipartimento di Economia non integrato in un polo ospedaliero, rappresenterebbe un investimento enorme), sottoporre un cervello umano a scansione per un’ora costa 600 dollari circa.

Gli studi neuro-scientifici si basano su un campione di osservazioni spesso non superiore alle 50 unità (per ovvie ragioni), il che ovviamente esclude ogni rappresentatività del campione.

Ora, Rubinstein dice: quando uno studio neuro-economico è fatto bene (e ce ne sono, come mostrano i lavori di Benedetto De Martino, già intervistato su questo giornale), il più delle volte riesce a replicare con una metodologia innovativa risultati già noti all’economia sperimentale, le cui ricerche, pur onerose, costano molto meno (20-30 dollari a soggetto reclutato).

Quando è fatto male, però, rischia di prendere, in parole potabili, una cantonata clamorosa.

La ricerca neuro-scientifica, insomma, rappresenta un’opportunità incredibile di avanzamento nella conoscenza di quella black box che è ancora il cervello umano. Gli investimenti non sono solo utili, ma necessari per migliorare le tecniche di analisi e ottenere risultati importanti. Tuttavia, varrebbe la pena di non lasciarsi andare a troppo facili entusiasmi, perché l’unico miracolo sarebbe quello di moltiplicare i pesci morti resuscitati.

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