Papa Francesco e l’ambiente: la ripresa di un Concilio incompiuto

In queste ore la Santa Sede si appresta a rendere ufficialmente noto un documento atteso da tempo: l’enciclica papale, la prima in assoluto, sull’ambiente. Conoscendo l’audacia e la schiettezza di Bergoglio  – e le primissime anticipazioni non ufficiali – molti pensano che il testo, che come tutti i documenti di questa rilevanza, sia destinato ad avere un grande peso nella vita della Chiesa e dei credenti, e susciterà l’interesse e il consenso di gran parte di coloro che hanno messo l’ambientalismo al centro delle proprie preoccupazioni morali e politiche.

Al di là del suo contenuto, che si attende di conoscere con impazienza nella sua versione definitiva, è però già la scelta dell’enciclica a indicare la volontà di una rottura, a suggerire il desiderio di una discontinuità, di innovazione. Certo, guai a dirlo apertamente: tutto il linguaggio, direi la retorica, della Chiesa cattolica si vuole sempre sotto il segno della continuità, del costante esprimersi nel mondo di un’unica, immutabile verità che parla via via il linguaggio dei tempi. E, come in tutti i grandi documenti vaticani, anche in questo caso – da quel che è dato sapere in questo momento – abbondano le citazioni di testi precedenti (da San Francesco e dalla Bibbia fino ai discorsi e agli scritti di Wojtyla e di Ratzinger), a indicare l’eterna presenza, nel messaggio cristiano, di ciò che ora viene detto in modo nuovo e forse solo in modo un poco più esplicito, consapevole e articolato.

Ma se la Chiesa cattolica ha, almeno nella sua ufficialità, questa costante premura per la continuità, per un eterno che essa disvela via via in forme storiche, chi guarda al passato per mestiere sa che discontinuità, rotture, conflitti, cambiamenti non sono mai mancati e, anzi, gli ultimi sessant’anni sono stati particolarmente ricchi di conflitti e di cambi di scenario sotto l’impetuosa pressione di un mondo che cambiava a ritmi inediti, sempre più rapidi ma spesso anche non lineari, tortuosi. E sa anche che la discontinuità più sorprendente per vastità e audacia è stata nel Concilio Vaticano II, frutto di un contesto storico di una vivacità irripetibile e infatti presto depotenziato, sottilmente negato e messo lentamente e tacitamente tra i robivecchi novecenteschi.

Pur senza rivendicarlo troppo apertamente (perché, appunto, significherebbe ammettere una discontinuità fieramente negata persino dai suoi predecessori liquidatori del concilio) gran parte del magistero di papa Bergoglio riprende molti temi e soprattutto lo spirito del Concilio.

E anche questa enciclica, in modo forse persino inconsapevole, riprende uno sforzo post-conciliare della Chiesa di chinarsi sulla questione ambientale che era rimasto tuttavia incompiuto, interrotto.

Molti rivendicano da tempo, anche in questo caso in nome della continuità, le progressive aperture di Wojtyla e Ratzinger all’ecologia, e pare certo che lo farà anche Bergoglio. Si è trattato tuttavia – credo si possa dire – di petizioni di principio piuttosto rare e timide, che non hanno mai inteso impegnare seriamente la Chiesa verso la questione ambientale, come invece avviene da oltre mezzo secolo su altre importanti questioni sociali (la pace, la povertà, i diritti) per non parlare delle questioni riguardanti la vita, la famiglia e tutto il nucleo dei cosiddetti “principi non negoziabili”.

E’ molto probabile, al contrario, che l’enciclica di Francesco voglia indicare ai cattolici ma anche al resto del mondo un deciso cambio di passo. Accanto al “ritorno” fortemente enfatizzato al centro dell’azione e della parola della Chiesa di temi conciliari come il disarmo, la lotta alla povertà, i diritti umani, ecco insomma “l’arrivo” dell’ecologia, la grande assente nella parabola conciliare iniziata con l’enciclica giovannea Mater et magistra del 1961 e conclusa proprio con il pontificato “normalizzatore” di Karol Wojtyla.

Ma è possibile ed è bene ricordare che quella assenza non fu propriamente totale, che la sollecitudine per l’ambiente avrebbe potuto ragionevolmente e appropriatamente stare dentro lo spirito e le preoccupazioni dell’età conciliare,. e che in piccola e del tutto provvisoria parte vi trovò anche posto. E che vi fu infatti una brevissima stagione in cui qualcuno, dentro la Chiesa, tentò di innestare l’ecologia sul tronco conciliare e di fornirle pari dignità rispetto a temi strategici quali la pace, la giustizia sociale, i diritti umani, la democrazia. E che questa stagione si chiuse, che questo tentativo fallì lasciando incompiuta l’agenda conciliare per diversi motivi, tanto oggettivi quanto soggettivi.

Ripeto: consapevolmente o meno Bergoglio sta forse oggi tentando di compiere quel passo che allora non riuscì e che fu fatto naufragare; anche in questo senso, insomma, il suo può essere considerato come la riapertura di un cantiere conciliare.

Quella vicenda è nota a pochissimi addetti ai lavori e ai pochi protagonisti sopravvissuti, ed è indispensabile quindi riassumerla rapidamente[1].

Nella discussione e nei documenti elaborati nel corso del Concilio, dall’ottobre del 1962 al dicembre 1965, non vi furono di fatto accenni di sorta alla questione ambientale. Erano proprio quelli gli anni in cui per la prima volta l’ecologia iniziava a comparire nel dibattito pubblico dei paesi industrializzati (Silent Spring di Rachel Carson era uscito un mese prima della cerimonia di apertura del Concilio) e la Chiesa, che già con una certa fatica e non senza contrasti interni stava riuscendo a captare i principali “segni dei tempi”, non aveva antenne sufficientemente sensibili per capire che anche quello dell’ambiente era un importante “segno dei tempi”, destinato peraltro a esplodere a livello mondiale di lì a pochissimi anni.

A parte la citazione di un paio di frasi bibliche molto generiche e che bisognava interpretare con una certa buona volontà per intravedervi un intento ambientalista, la copiosa e straordinaria documentazione prodotta dai padri conciliari e i fondamentali documenti di poco successivi come l’enciclica Populorum progressio (1967) non contenevano alcun cenno esplicito né alcun stimolo consapevole alla tutela dell’ambiente. Vista da questa prospettiva la Chiesa cattolica mostrava, anche a causa del suo centralismo, di essere in grave ritardo rispetto alla sensibile e agile elaborazione di teologia dell’ambiente che già dagli anni Cinquanta proveniva dal protestantesimo statunitense.

Nel silenzio dei documenti conciliari non pesava tuttavia solo l’incapacità di “vedere” il sorgere di una problematica nuova come quella ambientale.

Tali documenti, che pure coglievano bene molte delle principali contraddizioni politiche e sociali del mondo moderno, erano infatti permeati in gran parte del clima di speranza degli anni del dopoguerra, della distensione e della crescita economica, e mostravano una sostanziale fiducia nel progresso tecnico e scientifico. Tale fiducia, messa in ombra solo qui e là da qualche considerazione più pessimista e preoccupata, finiva col rinforzare uno degli elementi fondanti di tutto il pensiero cristiano: l’antropocentrismo. La visione, cioè, che la Terra fosse creata per il godimento dell’uomo, immagine di Dio e vertice della Creazione, e che tutt’al più all’uomo spettasse una responsabilità di saggia e rispettosa manutenzione del Creato medesimo.

Che l’uomo, e che soprattutto il moderno progresso scientifico, potesse invece costituire di per sé un elemento profondamente perturbante per l’equilibrio del  pianeta – come aveva scritto esattamente un secolo prima George Perkins Marsh – non sfiorò neanche lontanamente la mente dei padri conciliari.

La Chiesa uscita dal Concilio, d’altro canto, era ancora e sempre troppo sensibile a tutto ciò che travagliava l’esistenza dell’umanità concreta per rimanere totalmente impermeabile alle sollecitazioni, politiche e culturali, che crescevano di giorno in giorno sul fronte dell’ambiente.

Verso la fine degli anni Sessanta vennero così a confluire due piccoli rivoli che, sempre partendo dallo spirito e da alcune figure ed eventi conciliari, andavano nella direzione di una consapevole e ampia presa in carico della questione ambientale da parte della Chiesa.

Il primo rivolo era quello del “gruppo sulla povertà”, operante all’interno del Concilio sin dagli esordi. Questo gruppo aveva avuto un peso notevole nell’orientare i lavori conciliari riguardo alle questioni della giustizia sociale e nell’ispirazione della costituzione pastorale “Gaudium et spes”, l’ultimo grande documento approvato dai padri conciliari. In gran parte da questo gruppo, dai suoi membri e dalla sua ispirazione era poi sorta la pontificia commissione “Iustitia et pax”, il grande organo mondiale della Chiesa chiamato da Paolo VI a occuparsi delle grandi problematiche sociali del mondo moderno. Una delle animatrici prima del “gruppo sulla povertà” e poi della commissione era una famosa economista britannica, collaboratrice dei principali organismi mondiali e autrice di libri tradotti e venduti in tutto il mondo: Barbara Ward. Proprio a Barbara Ward, nel corso del 1969, il coordinatore di quella che sarebbe poi stata nel 1972 la grande conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente umano di Stoccolma affidò l’incarico di preparare un ampio documento preparatorio che divenne anch’esso un best-seller: Only One Earth. The Care and Maintenance of a Small Planet, uscito proprio alla vigilia della conferenza Onu. A Stoccolma, Ward sarebbe poi stata una delle figure centrali nella mediazione tra le varie linee che si confrontavano, ma all’interno della Chiesa avrebbe più in generale tentato per qualche anno di fare in modo che la “Iustitia et pax” assumesse in pieno la questione ambientale tra i propri obiettivi prioritari.

Il secondo rivolo, parallelo e poi confluente col primo, ebbe modo di concretizzarsi proprio in vista della conferenza di Stoccolma, ma aveva qualche radice un po’ più profonda. Come il primo rivolo, esso ha nomi e cognomi, due in particolare: Bartolomeo Sorge e Giorgio Nebbia.

Nella prima metà del 1970 padre Sorge, colto e sensibile gesuita stretto collaboratore di Paolo VI, aveva percepito l’importanza politica e sociale ma anche culturale e teologica della questione ambientale e, anche su stimolo di una prima corrispondenza con Nebbia, aveva probabilmente suggerito al Papa di affrontare l’argomento nel corso di un suo discorso alla FAO. Non è da escludere, visti i rapporti tra i due, che il discorso papale, il primo in cui un pontefice parlava di ecologia, fosse stato proprio redatto, o quantomeno strutturato, da Sorge stesso. Qualche giorno dopo il gesuita aveva pubblicato un ampio, maturo e informato commento al discorso papale che per la prima volta poneva ai lettori della “Civiltà cattolica” il problema del degrado ambientale e del ruolo dell’uomo in esso. Grazie a questi precedenti la Santa Sede affidò a Sorge il compito di coordinare un gruppo di lavoro incaricato di redigere il contributo ufficiale della Santa Sede alla conferenza di Stoccolma. Nebbia fu il principale animatore e ispiratore della redazione del testo, che si sarebbe rivelato uno dei più circostanziati e avanzati tra quelli prodotti dalle delegazioni nazionali al consesso dell’Onu.

Negli anni immediatamente seguenti, anche se in modo non del tutto chiaro e consapevole, si scontrarono due tendenze: la prima fu quella che tendeva a legittimare e istituzionalizzare l’impegno della Chiesa in campo ambientale, la seconda fu quella a mettere la sordina, nella Chiesa come nel mondo più ampio, alla sollecitazione verso l’ambiente. I portatori della prima istanza provarono a consolidare e ad ampliare il peso dell’ambiente nell’agenda di “Iustitia et pax” e per qualche anno ci furono piccoli risultati, apparentemente promettenti. I portatori della seconda tendenza iniziarono, appena dopo Stoccolma, a circondare di cautele politiche e teologiche la questione ambientale che, per l’essenziale, veniva poco capita ma soprattutto veniva identificata con il pericolo di diffondere nell’opinione pubblica mondiale e nei governi idee favorevoli alla limitazione delle nascite, che la Chiesa avversava fieramente mediante una battaglia che – questa sì – costituiva una vera priorità per l’istituzione come per tutti i credenti.

Questa preoccupazione e questa battaglia, per l’essenziale, contribuirono a far identificare l’ecologia – che già toccava poche corde profonde nei cattolici – con una specie di cavallo di Troia dei “malthusiani”. La seconda tendenza – sostenuta compattamente dai vertici della Chiesa – prevalse, e le timide aperture favorite e ottenute dalla prima furono presto accantonate. Alla metà degli anni Settanta il discorso era sostanzialmente chiuso.

È stato questo complesso di processi e di eventi, assieme al progressivo abbandono dello spirito, delle istanze e delle priorità del Concilio Vaticano II, che ha contribuito a lasciare sostanzialmente l’ecologia fuori dalla sensibilità e dalle priorità della Chiesa e dei cattolici. E questo, ripeto, nonostante qualche timida e formale affermazione di Wojtyla e di Ratzinger, in ogni caso più frequente in tempi più vicini a noi.

Bergoglio, dentro la sua ripresa conciliare, sembra voler riannodare un filo interrotto. Come non augurarsi che – finalmente – ci riesca?

[1] La vicenda ricostruita qui solo per brevi cenni è raccontata in dettaglio e con tutte le necessarie pezze d’appoggio in un saggio dal titolo “Only One Earth: The Holy See and Ecology”, in corso di pubblicazione negli atti del convegno Environmental Protection in the Global Twentieth Century: International Organizations, Networks and Diffusion of Ideas and Policies (Berlin 25-27.10.2012), a cura di Jan-Henrik Meyer e Wolfram Kaiser, per i tipi di Berghan Books, Oxford-New York.

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