La ripresa del dopoguerra: un movimento nuovo in un mondo nuovo
La Seconda guerra mondiale, con le sue colossali distruzioni e la sua dimensione davvero globale, rappresenta uno spartiacque storico ancor più grande di quanto non fosse stata la Prima. I mutamenti che maturano nel secondo dopoguerra sono di enorme portata e investono tutti gli ambiti della vita collettiva, a livello planetario.
Questo nuovo scenario globale – politico, economico, sociale e culturale a un tempo – modifica profondamente anche le caratteristiche della sensibilità ambientale e delle politiche nazionali e internazionali di protezione della natura.
Per comprendere come cambiano l’ambientalismo e le politiche ambientali dopo il 1945 è dunque indispensabile accennare prima di tutto ai principali mutamenti in atto. Tra i tanti che si potrebbero citare, vale la pena di illustrare almeno i sei che hanno più diretta influenza sulla vicenda che stiamo cercando di ricostruire.
La fine della guerra comporta anzitutto la fine della lunga crisi che nel corso degli anni Trenta ha prima devastato e poi depresso tutte le economie del mondo capitalista. Paradossalmente ma non troppo, lo sforzo bellico ha rivitalizzato la domanda e quindi ha stimolato il rilancio della produzione in molti paesi. Negli stessi Stati Uniti, il paese in cui sin dal 1933 era stato avviato il tentativo più importante di sostegno pubblico alla domanda, cioè il “New Deal” di Roosevelt, solo il riarmo dei primi anni ’40 consente di lasciarsi definitivamente dietro le spalle la depressione economica. Istruiti dagli errori di politica internazionale e di politica economica del ventennio precedente, oltretutto, gli Alleati impostano già durante la guerra un nuovo orientamento economico che valorizza l’integrazione e la cooperazione, proprio al fine di favorire la ripresa dell’economia mondiale. Queste misure – e la filosofia che ne sta alla base – favoriscono l’avvio del periodo di più spettacolare crescita economica che l’umanità intera abbia mai sperimentato, periodo che terminerà solo nei primi anni ’70. Nel corso degli anni ’50 e ’60 i consumi di massa, fino a pochi anni prima confinati ai soli Stati Uniti e solo in piccola parte alla Germania e alla Gran Bretagna, si estendono a molti paesi capitalisti del “Nord” del mondo e al Giappone e investono anche – sia pure in modo difettoso – i paesi del nuovo blocco socialista. Una parte importante – ma non maggioritaria – dell’umanità sperimenta per la prima volta un notevole benessere economico e al tempo stesso dei crescenti fenomeni di degradazione ambientale. Questi anni saranno non a caso definiti “l’età dell’oro”.
Oltre alla crescita economica (l’“età dell’oro” degli economisti) l’altro aspetto strutturale che caratterizza il secondo dopoguerra è quello che potremmo definire l’avvento dell’era progressista (gli “anni rossi” dell’Atlante storico del Novecento di “Le monde diplomatique”). Un’era che inizierà ad avvertire i primi segni di stanchezza nel corso degli anni ’70, che riceverà i primi duri colpi dal neoliberismo di Ronald Reagan e Margaret Tatcher nel corso degli anni ’80 e che grazie all’attuale crisi i poteri forti stanno cercando di cancellare per sempre dalla storia.
Dell’era progressista vorrei sottolineare in particolare quattro aspetti.
Il primo riguarda i rapporti internazionali. L’esperienza dei nazionalismi a livello culturale, dei protezionismi a livello economico e dell’isolazionismo a livello diplomatico è stata disastrosa: la catastrofe della guerra si è edificata proprio su queste basi. La nuova parola d’ordine è quella della cooperazione, della collaborazione, dell’integrazione, del dialogo fra stati e fra popoli. Anzitutto a livello istituzionale. È vero, questi sono anche gli anni in cui il mondo si spacca in due come una mela – paesi liberalcapitalisti da un lato e paesi socialisti dall’altro – ma le collaborazioni sono intensissime all’interno di ciascun blocco e i grandi organismi mondiali, prime fra tutte le Nazioni Unite, funzionano come mai hanno funzionato nei decenni precedenti. Ritorna enormemente potenziato, a partire dalla seconda metà degli anni ’40, il clima di collaborazione internazionale affermatosi durante la Belle Epoque e pressoché annichilito dalla Prima guerra mondiale: in campo economico, scientifico, culturale, politico…
La vittoria degli Alleati determina anche quello che appare, almeno in quegli anni, il definitivo tramonto delle culture politiche autoritarie che avevano trovato alimento nei nazionalismi ottocenteschi ed erano sfociate nella Grande guerra e nei fascismi. Le due grandi culture che ora si contendono il campo, la liberale e la socialista, hanno comuni radici negli ideali della Rivoluzione francese e condividono – almeno a parole – la fede nella democrazia, nell’eguaglianza tra tutti gli esseri umani e nei loro diritti, ora sempre più estesi e inalienabili. Da questo punto di vista i grandi documenti di questa epoca, dalle carte dei diritti delle Nazioni Unite alla Costituzione italiana e alle costituzioni del Concilio Vaticano II, parlano un unico linguaggio e ne parlano in modo esplicito ed entusiasta, nonostante gli ideali che vi vengono proclamati raramente trovino piena applicazione.
Del tutto coerente con queste premesse politiche è un terzo aspetto dell’età progressista: l’adozione pressoché universale di politiche economiche keynesiane e di quelle di piano. In questi anni il keynesismo appare al tempo stesso come un’eccellente soluzione tecnica ai gravissimi problemi che avevano afflitto il capitalismo tra le due guerre, come l’affermazione di ideali di democrazia e di giustizia sociale anche in campo economico e come un’inaggirabile risposta del mondo capitalista alla sfida – potenzialmente mortale – posta dal comunismo e dal suo modello economico. La conseguenza è il conseguimento – un po’ in tutti i paesi del mondo – di livelli di redistribuzione del reddito mai visti e mai più ripetuti in seguito, una grande attenzione ai diritti e alla qualità – non solo alla quantità – del benessere di tutta la popolazione, un ruolo sempre più attivo e razionale dello Stato nel perseguire questo benessere attraverso politiche non solo attive ma attentamente programmate. Alla pianificazione socialista risponde una programmazione socialdemocratica che investe gran parte degli aspetti della vita collettiva e che avrà grande successo fino a tutti gli anni ’60.
L’ultimo elemento da sottolineare in questa breve carrellata sull’età progressista sono gli effetti positivi, soprattutto ad occidente, della sfida tra blocco capitalista e blocco socialista. La sfida, potenzialmente mortale, tra due blocchi che sono anche due modelli politici ed economici è per lungo tempo una gara di emulazione non solo sui livelli armamento, di tecnologia e di crescita economica ma anche sulla capacità di distribuire equamente il reddito, di garantire un benessere diffuso e il rispetto dei diritti fondamentali. Insomma: una gara a chi è più “progressista” nel senso più ampio e moderno del termine.
Anche durante “l’età dell’oro”, in ogni caso, continuano a manifestarsi disagi e conflitti preesistenti e si aprono nuove contraddizioni e scricchiolii. La crescita economica e l’affermazione di nuovi diritti non riescono infatti a oscurare del tutto le preoccupazioni legate alla faccia distruttrice del progresso tecnologico, rappresentata nel modo più plastico dalla minaccia nucleare, e al fatto che la crescita economica stessa – ora fortissima – rischia di mettere a repentaglio risorse fondamentali e la capacità di molti ambienti di continuare a sostenere la presenza umana.