Il seguente testo è stato redatto per "il manifesto", con cui greenreport ha attiva una collaborazione editoriale
Smog e Covid cocktail letale per i malati
L’aria molto inquinata del Nord probabilmente ha contribuito all’aumento di morti da Covid-19. Ma serve altra ricerca per studiare questa correlazione
Può l’esposizione a inquinamento atmosferico, sia cronica sia acuta, avere un effetto sulla probabilità di contagio, la comparsa dei sintomi e il decorso della malattia causata dal coronavirus Sars-CoV-2? È questa la domanda che riassume tutti gli interrogativi ancora aperti sui legami tra la qualità dell’aria che respiriamo e gli impatti di Covid-19 sulla salute. È necessario sottolineare che una risposta compiuta al momento non esiste, ma lo sforzo profuso da ricercatori di tutto il mondo è enorme e ogni settimana vengono pubblicate nuove ricerche – in larga parte versioni preliminari, non ancora sottoposte a peer-review – sul tema.
Tutte, finora, suggeriscono che l’inquinamento atmosferico sia uno dei fattori in grado di aggravare l’impatto di Covid-19 sulla popolazione. Tra le più note spicca quella guidata all’Università di Harvard dalla ricercatrice Francesca Dominici, già intervenuta su queste pagine spiegando che le evidenze raccolte dal suo team mostrano come sul lungo periodo l’aumento di solo 1 μg/m3 di particolato PM2.5 sia associato ad un aumento del 15% nel tasso di mortalità da Covid-19. Una correlazione che necessita di ulteriori indagini per essere confermata, ma l’ipotesi non stupisce.
FINORA LA COMUNITÀ SCIENTIFICA non ha maturato una posizione sui ruoli che l’inquinamento atmosferico può giocare nella pandemia in corso. Allo stato dell’arte molti dubbi sono stati avanzati in particolare sull’ipotesi che l’inquinamento sia in grado di fungere da carrier, ovvero veicolare virus Sars-Cov-2 in grado di trasmettere il contagio ad altre persone. Le evidenze finora raccolte suggeriscono piuttosto che l’inquinamento atmosferico sia uno dei fattori in grado di aggravare l’impatto di Covid-19 sulla popolazione, in quanto più è alta e costante nel tempo l’esposizione a PM più è alta la probabilità che il sistema respiratorio sia soggetto a malattie gravi. Una considerazione valida anche per il fumo da tabacco: le ultime ricerche prese in esame dall’Istituto superiore di sanità (Iss) mostrano che un terzo in più dei fumatori positivi al Covid-19 presentava all’atto del ricovero una situazione clinica più grave dei non fumatori, e che per loro il rischio di aver bisogno di terapia intensiva e ventilazione meccanica è più che doppio.
L’IPOTESI DUNQUE IN QUESTO CASO è che la popolazione esposta cronicamente ad elevate concentrazioni di inquinamento presenti delle fragilità sanitarie (legate all’apparato respiratorio e cardiovascolare ad esempio) in cui il virus trova terreno «fertile» in cui agire, come riassumono da Legambiente.
Anche i livelli di inquinamento da NOx – ovvero ossidi di azoto – sembrano correlati alla letalità di Covid-19, come mostra uno studio condotto dalla Medical research council (Mrc) Toxicology unit dell’Università di Cambridge e firmato dal ricercatore italiano Marco Travaglio. «Con ogni probabilità – spiega Travaglio – gli elevati tassi di inquinamento in alcune regioni in Italia hanno contribuito ad accentuare il numero di morti da Covid-19. Ci sono molteplici studi nella letterature scientifica che attestano una correlazione tra livelli di inquinamento atmosferico e letalità di Covid-19. In Italia è stato dimostrato che le regioni maggiormente colpite da Covid-19 (Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna) sono tra le più inquinate in Europa, e lo stesso discorso è stato applicato ad altri contesti al di fuori dei confini nazionali. Ciononostante non bisogna dimenticare che gli studi sono correlativi e non evidenziano gli esatti meccanismi che legano l’inquinamento al Covid-19. Maggior ricerca è necessaria in questo settore per capire come l’infezione del virus possa essere aggravata dal contesto atmosferico a cui la popolazione è esposta».
Per capirne di più, le maggiori istituzioni italiane in materia hanno appena lanciato due distinti progetti di ricerca.
L’ISTITUTO SUPERIORE DI SANITÀ, il Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente (Snpa) e l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile (Enea) hanno unito le forze lanciando il Pulvirus, per indagare a tutto tondo: lo studio valuterà le conseguenze del lockdown sull’inquinamento atmosferico e sui gas serra, e le interazioni fra polveri sottili e virus. Durerà un anno, ma i primi «risultati significativi» si attendono prima dell’autunno: si approfondiranno in particolare il discusso legame fra inquinamento atmosferico e diffusione della pandemia; le interazioni fisico-chimiche-biologiche fra polveri sottili e virus; gli effetti del lockdown sull’inquinamento atmosferico e sui gas serra.
Soprattutto, oltre a Pulvirus l’Iss, insieme al Snpa e all’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) ha avviato anche il primo studio epidemiologico nazionale su inquinamento atmosferico e Covid-19, che – come spiega il presidente dell’Iss Silvio Brusaferro – mira ad esplorare il possibile contributo dell’inquinamento atmosferico alla suscettibilità all’infezione da Sars-Cov-2, alla gravità dei sintomi e degli effetti sanitari dell’epidemia».
«L’inquinamento atmosferico – osservano Iss, Ispra e Snpa – aumenta il rischio di infezioni delle basse vie respiratorie, particolarmente in soggetti vulnerabili, quali anziani e persone con patologie pregresse, condizioni che caratterizzano anche l’epidemia di Covid-19. Le ipotesi più accreditate indicano che un incremento nei livelli di PM rende il sistema respiratorio più suscettibile all’infezione e alle complicazioni della malattia da coronavirus. Su questi temi occorre uno sforzo di ricerca congiunto inter-istituzionale».
PIÙ NEL DETTAGLIO, GLI OBIETTIVI DELLO STUDIO epidemiologico nazionale verteranno in particolare sul ruolo dell’esposizione a PM nell’epidemia di Covid-19 nelle diverse aree del paese, per chiarire l’effetto di tale esposizione su distribuzione spaziale e temporale dei casi, gravità dei sintomi e prognosi della malattia, distribuzione e frequenza degli esiti di mortalità.
L’auspicio è che questi due importanti studi nazionali riescano a dare una risposta compiuta ai molti quesiti ancora aperti. Ma il progetto durerà un anno. E nel frattempo? «Non abbiamo ancora prove che colleghino direttamente alla mortalità – spiega a The Guardian María Neira, direttrice del dipartimento Salute pubblica, determinanti ambientali e sociali della salute dell’Organizzazione mondiale della sanità – ma sappiamo che se si è esposti all’inquinamento atmosferico aumentano le possibilità di essere colpiti più gravemente. Stiamo iniziando a inviare messaggi a Paesi e regioni dicendo: se stai iniziando ad avere casi, in quelle città in cui hai un alto livello di inquinamento, rafforza il tuo livello di preparazione perché potresti avere una mortalità più alta».