Nel mirino anche i funerali pomposi, i banchetti fastosi o i vestiti lussuosi
Viaggio nella Roma dei ricchi vietati per legge
L’antropologo Viglietti lega la moderna questione della sostenibilità con i lasciti del mondo antico
In questi anni di crisi si sono ingrossate due categorie di cittadini, i troppo poveri e i molto ricchi. I troppo ricchi, ieri come oggi, sono però ancora non pervenuti. Cristiano Viglietti, è sempre stato così?
«Per avere dei ‘troppo’ ricchi bisognerebbe sapere qual è il limite oltrepassato il quale anche la ricchezza viene percepita come un male. Ma se siamo tutti d’accordo che essere troppo poveri non va bene, mi pare che lo stesso non avvenga rispetto all’idea che anche l’avere troppo può rappresentare un danno per la società. D’altronde il principio che “di più è meglio” è uno degli assiomi fondamentali del pensiero moderno: finché non supereremo certi retaggi che arrivano dal XIX e XX secolo e che ancora oggi alcuni ribadiscono, di persone eccessivamente ricche non si sentirà parlare.
Un certo disappunto verso l’eccesso di ricchezza ha attraversato le società occidentali fino alla fine del XVIII secolo, cioè fino a che sono esistite le leggi suntuarie, ma forse il primo e più chiaro caso di lotta all’eccesso di ricchezza è quello di Roma, dove una legge dei tribuni Gaio Licinio e Lucio Sestio del 367 a.C. (che in parte fu ripresa, e resa più elastica, anche da Tiberio Gracco nel 133 a.C.) impediva a un cittadino di controllare più di 500 iugeri di terra, circa 120 ettari. Chi aveva di più era ‘troppo’ ricco e per questo punibile per legge».
Nella Roma arcaica la moderatio, il senso della misura, non era dunque solo una virtù etica ma anche una norma per il vivere civile declinata con forza di legge: in quali forme?
«Ovviamente se imponi a forza di legge la moderazione significa che molti Romani erano tutt’altro che moderati! È vero tuttavia che se usi la legge, e a più riprese, per affermare un principio è perché consideri tale principio capace di giovare alla società e di conservarla. Molti pensatori e politici Romani erano infatti convinti che la diffusione del desiderio illimitato di arricchimento individuale avrebbe minacciato la società come sistema di condivisione.
Le forme delle leggi che inducevano moderazione nella Roma repubblicana erano molto varie: le più antiche impedivano il lusso funerario, la celebrazione di esequie fastose; altre leggi vietavano la gestione del patrimonio agli scialacquatori, obbligando la famiglia a trovare un tutore; esistevano poi leggi che fissavano limiti agli interessi esigibili da un creditore; leggi che limitavano il possesso terriero; altre che contenevano il possesso di navi commerciali dei senatori; altre ancora che limitavano il lusso nei banchetti sia rispetto al numero di invitati, sia rispetto al denaro che poteva essere speso per acquistare il cibo; altre infine, seppur applicate non a lungo, impedivano il lusso dell’abbigliamento delle matrone. Alcune di queste leggi, promulgate nel tempo sulla base di esigenze puntuali e mutevoli, vennero gradualmente abbandonate, fino alla sostanziale sparizione delle leggi suntuarie sotto il regno di Tiberio (14-37 d.C.)».
Guardando l’altra faccia della medaglia, Roma ha lasciato impressa lungo i millenni l’idea di grandi fasti. Stiamo parlando di una società che ha comunque finito per trasformarsi in uno dei più grandi imperi della storia. Non sembra un grande esempio di senso della misura…
«La moderazione nella Roma repubblicana dovette essere innanzitutto una virtù privata. L’ideale del cittadino che vive in modo piuttosto sobrio ma che conquista nuovi territori all’impero è uno dei modelli più forti nella cultura romana. Un grande impero, dunque, non è di per sé necessariamente in contraddizione con la frugalità dei suoi cittadini. Il problema con cui i Romani dovettero fare i conti è che l’espansione li mise in contatto, e da dominatori, con società molto diverse dalla loro, e con attitudini differenti rispetto alla ricchezza. Gli effetti delle reciproche acculturazioni con altre società certamente modificarono anche i modelli di percezione, accumulazione, consumo dei beni dei Romani. Resta comunque il fatto che, nella visione comune, un certo disprezzo nei confronti della ricchezza smodata, e smodatamente ostentata, restò a lungo: il modo con cui Petronio guarda a Trimalchione nel suo Satyricon ha fatto storia, fino alla resa cinematografica felliniana».
I cittadini di oggi si trovano già costretti a ridurre i propri consumi a causa della crisi, ma non è certo un esempio di successo. Ripensare la frugalità romana torna ora di particolare interesse per disegnare un modello di sviluppo più sostenibile: con quale spirito pensa sia più giusto approcciarvisi?
«Innanzitutto avendo presente che le sfide e le difficoltà del mondo moderno sono molto maggiori rispetto a quelle dell’antichità. La questione della sostenibilità, e il significato positivo che ad essa dovremmo tutti attribuire, si basa su un problema – quello dell’inquinamento ambientale e dello sfruttamento delle risorse naturali al di là delle loro capacità di rigenerazione – che sostanzialmente non esisteva nel mondo antico. Quello che, tuttavia, forse ancora oggi possiamo prendere di buono dalle concezioni antiche della frugalità è l’idea che la somma degli egoismi individuali non produce una società, ma un coacervo di individui egoisti, cioè il contrario di una società. E per avere una società è necessario ci sia la percezione di una res publica che appartiene a tutti (oggi, oltre allo Stato, l’ambiente), che tutti dobbiamo impegnarci affinché essa si conservi, e di cui tutti possiamo avere una parte ma, come dicevano gli antichi, ‘nulla di troppo’».
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