In Italia dal gettito potrebbero arrivare 14 miliardi di euro l’anno da redistribuire

Il G20 e la Conferenza internazionale sul cambiamento climatico rilanciano la carbon tax

Fmi: «La prima priorità è liberare il mondo da ogni forma di sussidi ai combustibili fossili, sono equivalenti a più di 5 trilioni di dollari all'anno»

[12 Luglio 2021]

A margine del G20 si è tenuta ieri a Venezia la Conferenza internazionale sul cambiamento climatico, organizzata dal ministero dell’Economia e dalla Banca d’Italia, che ha riportato la carbon tax – o meglio tutti gli strumenti in grado di dare un prezzo alle emissioni climalteranti – al centro del dibattito politico globale.

I lavori sono stati aperti dal premio Nobel per l’Economia William Nordhaus, che ha evidenziato le carenze nell’azione di contrasto al cambiamento climatico intrapresa finora, e la necessità di politiche maggiormente incisive e di accordi vincolanti; intervenendo pochi mesi fa al Festival dell’economia di Trento, Nordhaus aveva già prospettato la necessità di un nuovo patto sul clima con l’obbligo di fissare un prezzo del carbonio a livello mondiale, che si potrebbe aggirare in una forbice fra i 45 e 200 dollari a tonnellata.

Ad oggi siamo lontanissimi da questo scenario, come ha evidenziato la direttrice del Fondo monetario internazionale (Fmi) Kristalina Georgieva: il prezzo medio globale della CO2 è appena di 3 dollari la tonnellata, e oltretutto copre solo il 23% delle emissioni complessive.

Si tratta però di dati medi, dietro i quali c’è una realtà estremamente differenziata. La Banca mondiale conta almeno 57 forme di carbon pricing nel mondo, di cui 29 carbon tax – dieci delle quali in Stati europei, con casi di grande successo come quello svedese – che però non è presente né in Italia né nell’Ue nel suo complesso. Su questo fronte finora lo strumento prediletto dall’Europa è stato il mercato Eu Ets, che copre settori responsabili di circa il 45% delle emissioni di gas a effetto serra europee e dove i prezzi della CO2 – dopo anni a livelli infimi – sono attualmente attorno ai 50 euro a tonnellata.

Come migliorare dunque a livello globale, a partire da uno scenario estremamente variegato? «La prima priorità è liberare il mondo da ogni forma di sussidi ai combustibili fossili, sono equivalenti a più di 5 trilioni di dollari all’anno», risponde Georgieva.

Un tema che ci riguarda molto da vicino. Legambiente stima che lo Stato italiano spenda ogni anno 35,7 mld di euro l’anno in sussidi ambientalmente dannosi, che lo stesso Governo circoscrive a un più limitato ma comunque enorme perimetro pari a 19,7 mld di euro, all’interno del quale i sussidi ai fossili rivestono la parte del leone: 17,7 mld di euro annui. Spostare queste ingenti risorse su altri fronti, stando alle stime del Governo italiano, porterebbe grandi benefici non solo per il clima anche per Pil e lavoro.

Oltre a questa priorità, la chiave per sostenere la transizione energetica sta nel mettere «un prezzo robusto sul carbonio», continua Georgieva: «Entro il 2030 abbiamo bisogno di un prezzo medio globale di 75 dollari per tonnellata di CO2».

Come raggiungere l’obiettivo? Il Fmi ha ribadito la sua recente proposta per arrivare a un accordo internazionale che introduca un prezzo minimo del carbonio (International carbon price floor), o meglio diversi prezzi minimi a seconda dei contesti locali di sviluppo, oscillando a partire da 25 dollari per tonnellata di CO2.

«Un prezzo minimo – aggiunge Georgieva – affronterebbe le preoccupazioni sulla competitività che già incentivano gli adeguamenti alle frontiere del carbonio, che sono meno efficaci e più divisivi». Il richiamo implicito è alla carbon tax alla frontiera (Carbon border adjustment mechanism, Cbam) che l’Ue si appresta a presentare per incrementare l’ambizione climatica del Vecchio continente proteggendo al contempo le industrie locali dal dumping ambientale, che altrimenti subirebbero dall’import di prodotti esteri sottoposti a vincoli climatici assai meno stringenti.

Gestire le ricadute economiche e ancor più quelle sociali legate alle carbon tax (di ogni tipo) è infatti un elemento cruciale per il loro successo, come è stato reso evidente in Francia dalla rivolta dei Gilet gialli. Cosa accadrebbe ad esempio introducendo in Italia una carbon tax come quella proposta dal Fmi?

Come spiegava un anno fa il Kyoto club durante un incontro con il presidente Mattarella, introducendo una tassa pari a 75 dollari per tonnellata di CO2 avremmo a disposizione 14 miliardi di euro l’anno in grado di finanziare un “reddito di cittadinanza ambientale”, con più risorse dell’attuale Rdc.

Una recente analisi fornita dall’Osservatorio dei conti pubblici italiani sulla base di dati Fmi aggiunge che, in questo modo, in Italia «il prezzo di carbone aumenterebbe del 134%, quello dell’elettricità del 18%. Per la benzina, l’aumento di prezzo sarebbe di circa il 10%». Un cataclisma? Non sembra: «Si arriverebbe dunque a livelli dei prezzi già registrati in passato (si pensi al biennio 2012-2013)».

Di certo la crisi climatica costerebbe di più: secondo le stime elaborate da Swiss Re per Oxfam, l’Italia rischia un impatto peggiore rispetto a tutti gli altri Paesi del G7,perdendo l’11,4% annuo del Pil entro il 2050: più di una pandemia l’anno, col Covid-19 che nel 2020 ha fatto arretrare il Pil italiano dell’8,9%.