A greenreport Aldo Femia, esperto di informazione economico-ambientale e primo ricercatore presso l'Istat*
L’economia non è fatta di numeri: indagine sui flussi di materia che attraversano l’Italia
Nel programma di lavoro per il 2015 la Commissione Ue mette a rischio le politiche di riciclo, fondamentali per un Paese povero di risorse naturali come il nostro
[16 Dicembre 2014]
Conosciamo in dettaglio i consumi energetici italiani, che oggi vengono anche usati come potente chiave interpretativa della crisi economica. Lo stesso non accade con i flussi di materia o il capitale naturale: perché?
Credo che la chiave di lettura più ovvia sia quella dell’importanza economica e strategica riconosciuta all’energia. Se l’energia non avesse importanza strategica, ma contasse solo o soprattutto in una prospettiva di sostenibilità ecologica, cioè per le conseguenze ambientali del suo utilizzo, credo che non avremmo un dettaglio di conoscenza dei consumi energetici maggiore di quello che abbiamo dei flussi di materia. In una società dominata dalla logica economica, certe statistiche sono considerate vitali: l’energia è per sua natura essenziale a ogni funzione, sono quindi in gioco gli “interessi strategici nazionali”, la sicurezza dell’approvvigionamento e così via. Va da sé che la peculiare organizzazione del sistema energetico configuratasi nel 20° secolo, caratterizzata da una estrema concentrazione della “produzione” di energia, esasperi questo elemento di criticità, innalzando il livello di attenzione per i fenomeni che riguardano l’energia.
Gli impieghi di materiali considerati in generale, non sono oggetto di grande attenzione. Con “attenzione per i materiali considerati in generale” intendo attenzione non focalizzata su questa o quella emergenza, ma orientata da liste esaustive di tutto ciò che l’ecosistema fornisce al sistema economico e che questo restituisce all’ecosistema in forma degradata. Adesso infatti l’attenzione, quando c’è, è focalizzata soprattutto su quei materiali la cui scarsa disponibilità costituisce una minaccia per il sistema produttivo – come per esempio nel caso delle terre rare – o la cui sovrabbondanza costituisce un problema da gestire, come nel caso dei rifiuti. D’altro canto, perché si dovrebbero investire risorse per conoscere in dettaglio qualcosa che non ha molta importanza economica, né strategica, né una problematicità ambientale immediatamente riconoscibile? Per fare un esempio, la ghiaia non è scarsa, non esplode, non emana odori insopportabili … a chi vuole che importi quanta se ne usa e cosa se ne fa?
L’interesse per statistiche relative agli impieghi di materiali, considerati in generale, è nato una ventina di anni fa con la consapevolezza del fatto che le pressioni sulla Natura (cioè le sollecitazioni che tendono a rompere gli equilibri naturali) sono sempre connesse con la circolazione dei materiali messa in moto dall’uomo e che le pressioni ambientali in larghissima parte consistono negli stessi prelievi e restituzioni di materiali da/all’ambiente naturale. Sulla scia di quelle riflessioni è stato adottato nella statistica ufficiale della UE un sistema di conti dei flussi di materia, sulla base di un regolamento emanato nel 2011. Ma anche questa normativa risente di una impostazione focalizzata sulla scarsità delle risorse, dal momento che le statistiche richieste sono limitate ai prelievi dall’ambiente naturale di materiali utilizzati nel sistema economico e agli scambi con il resto del mondo.
Rimangono in secondo piano la coerenza con le poste del bilancio dei flussi di materia del sistema antropico che riguardano il lato dell’output – non elaborate nell’ambito del sistema – e i materiali inutilizzati, mentre vi è un’attenzione crescente per i fabbisogni indiretti di materiali. Quest’ultimo aspetto, peraltro, sembra essere legato non tanto ad una attenzione per la distribuzione ineguale delle pressioni ambientali dovute al nostro approvvigionamento di materie prime e prodotti, quanto a preoccupazioni per il rischio di interruzione delle forniture e i costi crescenti dovuti alla scarsità.
Occorre anche dire che non mancano questioni di accuratezza e completezza. Per quanto riguarda l’accuratezza – un caso eclatante è quello delle stime relative alle cave – alcune elaborazioni relative ai materiali estratti o raccolti in Italia sono rese estremamente difficoltose dalla debolezza della base informativa amministrativa, che se curata come si deve permetterebbe di migliorare notevolmente le stime statistiche disponibili. Per quanto concerne la completezza, quel che ancora conosciamo molto poco e in maniera assolutamente disorganica sono gli scambi tra i diversi sottosistemi dell’economia. È a portata di mano invece la chiusura del bilancio, con l’inclusione nei conti delle poste che descrivono i vari flussi di materia in cui si trasformano i materiali consumati, cioè i rifiuti, le emissioni in atmosfera, i reflui, i nuovi stock. Per le emissioni in atmosfera disponiamo già di grande dettaglio in termini sia di sostanze inquinanti emesse sia di attività economiche che generano le emissioni – questo è verosimilmente fattibile anche per i rifiuti: tutto sta a metterci un po’ di risorse.
Servirebbe anche sviluppare statistiche sulla durevolezza dei beni, su quanto tempo ci mettono le risorse a diventare materiali di scarto dopo che sono state prelevate dai loro siti in Natura.
E per quanto riguarda il capitale naturale?
Quanto al capitale naturale, vorrei cogliere l’occasione innanzitutto per contestare l’utilizzo della parola capitale e tutto ciò che essa porta con sé. Capitale rimanda al valore economico e allo sfruttamento economico della Natura, non alla sua protezione. Poiché a me interessa la protezione della natura, e non la sua “valorizzazione”, preferirei si parlasse di patrimonio naturale. Le parole sono importanti, aprono o chiudono prospettive sul mondo. Purtroppo la prospettiva oggi dominante è quella del capitale, appunto.
È inevitabile che questa distinzione possa sembrare inutile, o perfino dannosa, a chi pensi, nella nostra società sottomessa alla dimensione economica, che solo “dando un valore alla Natura” (sottintendendo “economico, monetario”) la si possa proteggere.
Io credo sia vero semmai il contrario, che al fondo del problema ci sia proprio il dominio della dimensione economica, che questo dominio vada superato e invece in tal modo lo si estende, che questa impostazione sia contraddittoria rispetto alla sacrosanta idea di andare “oltre il PIL” e che l’espressione “dare un valore alla natura” giochi in maniera pericolosa sull’ambiguità della parola “valore”. Senza ritenere di doverlo esplicitare, infatti, si intende “dando un valore economico alla Natura”, laddove economico vuol dire espresso in termini monetari. Questo è il tipo di valore che si confà ad un capitale. Ma questo valore non può rappresentare i valori (etici) che sostengono un patrimonio (dell’umanità presente e futura). È per definizione relativo, negoziabile, laddove servono paletti assoluti e fermi, perché gli equilibri naturali impongono limiti ineludibili. Il patrimonio è intangibile, salvo casi eccezionali. Un capitale va giocato sulla piazza economica, per definizione. Con ciò non voglio dire che non vi siano sovrapposizioni: alcuni elementi o aspetti del patrimonio naturale sono anche capitale. Ma assumere la valutazione monetaria come espressione del valore della Natura tout-court, ed eventualmente basare decisioni di fare o non fare sulla valutazione economica, vorrebbe dire appiattire la Natura sul suo valore economico in quanto capitale, annullando gli altri aspetti. Non intendo assolutamente dire che siano queste le intenzioni di chi promuove la valutazione monetaria, denuncio solo i pericoli di un approccio parziale e che facilmente si presta ad interpretazioni distorcenti.
L’attribuzione di un ben determinato valore economico a qualcosa apre la strada alla sua alienabilità, ovvero alla possibilità di scambiarlo o sostituirlo con qualcos’altro – all’inizio magari è solo una possibilità teorica, alla lunga diventa reale, come il land grabbing. La sostituzione è quella prevista dall’idea debole di sostenibilità.
Cancellare questa distinzione tra capitale e patrimonio ha un profondo significato antropologico: è un elemento della gestazione dell’uomo nuovo del liberismo, per il quale tutto può essere scambiato, purché si tragga utilità dallo scambio. Quel che conta sono solo le funzioni delle cose. Tra le cose, la Natura non occupa alcun posto speciale. Il che può essere descritto con un paradosso: passeggiare in un bosco di plastica potrebbe avere la stessa utilità che passeggiare in un bosco vero, se solo – ragionando per assurdo – il primo fosse realizzato in modo tale da poter fornire tutti quei servizi ecosistemici (dalla fotosintesi al frusciar del vento tra le foglie) che possono essere utili all’uomo direttamente o indirettamente e che il bosco vivo già fornisce. Se poi consideriamo che da un lato resterebbero assicurati gli stessi servizi di un bosco vero e dall’altro, attraverso la produzione del bosco di plastica, verrebbero garantiti profitti aggiuntivi, da economista bocconiano potrei arrivare a dire che produrre il bosco di plastica (e tagliare il bosco vivo) sarebbe addirittura meglio! È un paradosso, ma non sono forse paradossali affermazioni del tipo “il valore globale dei servizi che la natura fornisce è di 60, 100, o 500 mila miliardi di euro l’anno”? C’è dell’assurdo in tutto ciò.
Nell’impianto delle valutazioni monetarie un argine a quanto sopra si potrebbe forse pure trovare, nel “valore di esistenza”; ma di porlo uguale a infinito – come dovrebbe essere – non se ne parla neanche! Si prendono invece tante valutazioni individuali e marginali (nel senso della teoria economica marginalista), e le si scambiano per valutazioni globali. È come scambiare il PIL per il valore totale dei beni e servizi prodotti, dimenticando che una parte essenziale di quel valore, il surplus del consumatore, nel PIL non entra per nulla: com’è noto anche agli economisti che sostengono l’opportunità della valutazione monetaria ad ogni costo, i valori di mercato sono collegati (se mai lo sono in qualche modo con l’utilità) con l’utilità marginale, non con quella totale. Ma – tanto per fare un esempio – l’utilità per una popolazione dell’intero raccolto dal quale dipende la sua sopravvivenza è infinita, non commesurabile con il valore di mercato di quantità di altri beni che non possono valere come sostituti di quel raccolto. Più in generale, l’utilità sociale – comunque la si pensi – è cosa ben diversa dalla somma delle valutazioni individuali e questo andrebbe tenuto presente anche nell’ambito di esercizi di teoria economica basati sul criterio di Pareto, per i quali – per farla breve – laddove l’utilità di qualcuno aumenta senza che quella di qualcun altro diminuisca l’utilità sociale aumenta anch’essa. La legittimazione ideologica dello scambio come unico principio regolatore della vita sociale passa anche per queste “dimenticanze” teoretiche. Trovo singolare che spesso gli stessi critici del PIL come indicatore di benessere siano tra i promotori della valutazione monetaria del capitale naturale. Purtroppo è di moda cercare termometri unidimensionali per misurare insiemi di fenomeni estremamente vasti e variegati. Di fronte alla complessità non esistono scorciatoie.
È in quest’ottica che dico: certamente dobbiamo conoscere meglio il patrimonio naturale per meglio proteggerlo. Qualche sforzo in tal senso a livello internazionale si sta facendo. La contabilità del patrimonio naturale e dei servizi ecosistemici costituisce una frontiera di sviluppo dei sistemi statistici – e della Contabilità Ambientale in particolare – molto interessante, ed è campo di controversie di grande importanza, quale appunto quella sulla valutazione monetaria. Una cosa su cui tutti sono d’accordo è che vadano sviluppati innanzitutto i conti fisici. E’ un campo vastissimo, che per la parte dei servizi riflette la varietà delle funzioni svolte dall’ecosistema a beneficio dell’uomo, e sta a cavallo tra scienze della natura e scienze sociali.
L’ultima pagina Istat sui flussi di materia pubblicamente disponibile risale al 2012, riferita al 1991-2009. A oggi l’Istituto come e con quale efficacia è in grado di fotografare questa dimensione e quella del capitale naturale?
Credo che lei abbia in mente una pubblicazione con grafici e dati commentati. Consultando il sito dati.istat.it, navigando l’albero dei dati, alla voce conti nazionali – conti dell’ambiente e altri conti satellite, si trovano tavole di conti dei flussi di materia aggiornate al 2012 come ultimo anno di riferimento. Gli stessi dati sono reperibili, in formato leggermente diverso, sul database di Eurostat. Alcuni dati inoltre sono diffusi anche attraverso l’annuario dei dati ambientali dell’Ispra, che ha dedicato all’argomento anche alcune parti delle sue “tematiche in primo piano”. Un interessante approfondimento sulle biomasse fu fatto alcuni anni fa, mentre è più recente una applicazione analitica sui flussi indiretti di materiali utilizzati, i cosiddetti Raw Material Equivalents.
Quanto alla misurazione del capitale naturale: nella statistica ufficiale non esiste allo stato uno specifico schema rispondente a questa etichetta. D’altro canto, a livello internazionale il concetto non è stato ancora delineato in termini abbastanza chiari, precisi e incontroversi per poter procedere ad una sistematizzazione dell’informazione statistica attorno ad esso, per una produzione di dati su base regolare. Di certo, esiste allo stato una molteplicità di statistiche rilevanti, che descrivono il patrimonio naturale nelle sue componenti fisiche e anche alcuni suoi aspetti economicamente rilevanti. Potrebbe essere una buona idea metterle a sistema, analogamente a quanto si fa con i conti dei flussi per quanto concerne la materia e l’energia. Però senza provinciali fughe in avanti, rimanendo ben ancorati agli sviluppi della statistica ufficiale a livello internazionale.
L’aggiornamento Istat è dunque annuale, anche se sotto forma di crudi numeri (e a quando quello riferito per il 2013)?
Si. Il regolamento europeo richiede, a dicembre di ogni anno, dati relativi a due anni prima. L’Istat, avendo già pubblicato a inizio 2014 dati per il 2012, sebbene provvisori, è dunque “in anticipo” di un anno. Durante l’inizio del prossimo anno dovrebbero quindi essere resi disponibili le stime riviste per il 2012 e quelle preliminari per il 2013. Tenga sempre conto però, che le metodologie vengono continuamente riviste e migliorate, quindi è sempre possibile che le revisioni riguardino l’intera serie storica. Ovviamente la pubblicazione tempestiva dei crudi numeri non esclude che con un po’ più di calma possano essere rese disponibili delle analisi.
Sono disponibili dati di dettaglio splittati su base regionale?
No, o almeno non ancora. Ci sono degli esperimenti pilota.
Nel suo complesso, come si classifica la performance italiana sui flussi di materia rispetto ai partner europei?
In termini di PIL per unità di materia “consumata”, cioè trasformata in rifiuti, emissioni e nuovi stock, l’Italia con i suoi circa 2,3 euro/kg sta decisamente sopra la media Europea, che Eurostat stima in 1,76 euro/kg (anno di riferimento 2012). Meglio dell’Italia fanno Regno Unito e Lussemburgo con le loro economie altamente terziarizzate e più dedite ad attività finanziarie, e i Paesi Bassi. Vanno più o meno come l’Italia la Francia, la Spagna e il Belgio. La Germania è un po’ meno efficiente da questo punto di vista (1,9 euro/kg), avendo ancora un consistente settore estrattivo. Le dinamiche sono state, attraverso la crisi, di netto miglioramento, sia in Europa che in Italia. Segno che la crisi ha colpito più pesantemente le produzioni material-intensive, e che la delocalizzazione produttiva ha continuato a produrre effetti “virtuosi” in termini di “consumo” di materia. Questa infatti genera scivolamenti a valle e troncature a monte delle filiere produttive nazionali. In altre parole, la composizione delle importazioni muta in favore dei prodotti finiti a scapito di materie prime e semilavorati.
Anche in termini di materia “consumata” per abitante, l’Italia appare virtuosa, siamo scesi sotto le 10 tonnellate per abitante. Questa dinamica è chiaramente dovuta soprattutto alla crisi.
Benché all’origine della produzione di rifiuti, i flussi di materia sono a oggi pressoché assenti nelle politiche della loro gestione. Al contempo, manca un sistema affidabile e omogeneo per sapere cosa accade ai rifiuti italiani: quanto pesano queste lacune?
I flussi di materia, intesi come distrazione delle risorse dai loro cicli naturali o prelievo dalle riserve naturali, sono all’origine non solo dei rifiuti, ma anche delle emissioni in atmosfera (che è la nostra principale pattumiera) e nelle acque, come pure dell’intrusione di manufatti nel paesaggio. Tutto ciò che entra nel sistema antropico ne dovrà uscire prima o poi, per un qualche canale. Mentre però i canali di ingresso della materia nel sistema antropico sono in numero limitato, come sono pure le forme in cui la materia entra, le forme in cui esce sono molteplici e i canali estremamente numerosi. Ciò rende più difficoltoso il loro monitoraggio e controllo. Un Paese come l’Italia, tuttavia, avrebbe dovuto mettere in piedi un sistema adeguato già da molto tempo. Invece il nostro è un Paese in cui sembra normale dismettere sistemi che più o meno funzionano per far partire qualcosa che non c’è. La stessa cosa è successa, per citare un caso che conosco molto bene, con la decentralizzazione della materia mineraria: per recuperare i danni non sono bastati trent’anni …
Le lacune pesano sia nel senso che disponendo di statistiche affidabili si potrebbero costruire conti ambientali a supporto dell’analisi economico-ecologica, sia nel senso che i conti dei flussi di materia potrebbero costituire una base di partenza per la miglior conoscenza e gestione dei problemi legati ai rifiuti. Ad esempio, informazioni di dettaglio sul flusso dei prodotti – le stesse che in parte confluiscono nei conti dei flussi di materia – opportunamente elaborate, potrebbero costituire un input prezioso sia per la validazione delle statistiche, sia per la previsione delle quantità prodotte, sia per la programmazione di interventi, ad esempio per il dimensionamento della capacità di raccolta e riciclo o per la fissazione di priorità e incentivi per lo sviluppo di tecnologie per il recupero. Basterebbe, per iniziare, qualche modesto investimento nello sviluppo di infrastrutture a supporto della conoscenza statistica.
Il Collegato Ambientale, prossimo alla definitiva approvazione parlamentare, prevede l’istituzione di un comitato dedicato alla contabilità ambientale: pensa sia utile, come dovrebbe essere strutturato?
Se ne era parlato già l’anno scorso, poi chi sa perché non se ne fece nulla. Tutto ciò che serve a promuovere la conoscenza del patrimonio naturale e la presa in considerazione dell’ecosistema nelle decisioni politiche è benvenuto. Credo però che più che di comitati di alto livello, ci sia bisogno di investimenti massicci nella ricerca e nel buon funzionamento della pubblica amministrazione, a cominciare dalla stabilizzazione dei precari, il cui contributo è essenziale e spesso ne evita il collasso.
L’art. 50 del collegato ambientale licenziato dalla Camera, quello che istituisce il “comitato per il capitale naturale”, si suddivide in 5 commi. La strutturazione è fissata nel primo comma, prima ancora di definire le funzioni del comitato: 9 ministri, un rappresentante della Conferenza dei presidenti delle regioni e delle province autonome, il Governatore della Banca d’Italia, il Presidente dell’Istituto nazionale di statistica, il Presidente dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, il Presidente del Consiglio nazionale delle ricerche e il Presidente dell’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile, o loro rappresentanti delegati. Da ultimo, il comitato è integrato, a discrezione del ministro dell’ambiente (che presiede il comitato), “con esperti della materia provenienti da università ed enti di ricerca, ovvero con altri dipendenti pubblici in possesso di specifica qualificazione”. Una primissima valutazione, anche alla luce dell’elenco dei ministri previsti all’art. 50, è che c’è troppa economia in questo comitato, e c’è il serio rischio che ci sia troppo poca scienza ecologica.
Il comma due fa (poca) luce sulle funzioni: dispone che il comitato trasmetta annualmente al Presidente del Consiglio dei ministri e al Ministro dell’economia e delle finanze (il che è singolare, essendo quest’ultimo un membro del comitato: un lapsus rivelatore?) “un rapporto sullo stato del capitale naturale del Paese, corredato di informazioni e dati ambientali espressi in unità fisiche e monetarie, seguendo le metodologie definite dall’Organizzazione delle Nazioni Unite e dall’Unione europea, nonché di valutazioni ex ante ed ex post degli effetti delle politiche pubbliche sul capitale naturale e sui servizi ecosistemici”. Il richiamo alle metodologie definite da ONU e UE vuol dire: statistica ufficiale. Non è detto, ma sembra ovvio che anche le valutazioni ex-ante ed ex-post debbano basarsi su una solida base statistica ufficiale, oltre che su metodologie condivise. Però non si vanno a creare le infrastrutture necessarie a colmare i ritardi esistenti su questi fronti. Vedo quindi un bell’impianto privo di un pilastro fondamentale.
Mettendo insieme tutto quanto sopra, mi sembra probabile che nei fatti il comitato si configurerà così: gli alti dirigenti, che verosimilmente rappresenteranno i vari ministri e presidenti, ne rappresenteranno il nervo politico e meneranno la danza senza capire gran che del merito delle valutazioni tecniche da licenziare, ma capendo molto sull’opportunità di avallare determinate risultanze delle analisi e offuscarne altre, alla luce delle esigenze del proprio dicastero o Ente, facendone ove necessario questione di metodo; alle loro spalle siederà una piccola schiera di funzionari formalmente cooptati nel comitato (gli “altri dipendenti pubblici in possesso di specifica qualificazione”): questi ne saranno il nervo tecnico, alcuni di loro capiranno l’oggetto di cui si parlerà e si daranno molto fare perché si produca il rapporto e questo non scontenti i rispettivi padrini e madrine (accanto o anche dietro a questi, altri funzionari che ne capiranno almeno altrettanto staranno a lavorare nell’ombra, senza riconoscimento formale, a fare analisi e valutazioni che altri imperscrutabilmente promuoveranno o affosseranno, il tutto “a costo zero” per le casse dello Stato, ma non per le altre attività relative ai propri compiti istituzionali; per non dire che la mancanza delle necessarie risorse aggiuntive spingerà i servitori dello Stato a far uso pesantemente del proprio tempo privato); l’incognita maggiore sono gli “esperti della materia provenienti da università ed enti di ricerca”, che il ministro dell’ambiente potrà scegliere. Ho visto con premesse simili un brutto film, qualche anno fa. Allora la commissione era istituita presso il ministero del tesoro. L’Italia è sempre e ancora il meraviglioso Paese in cui c’è sempre il rischio che un cavallo sia fatto senatore con un colpo di penna …. Preferirei qualche meccanismo innovativo e democratico, l’elezione dei propri rappresentanti da parte della comunità scientifica e spazi certi per ecologi e altri scienziati naturali, e per esperti di interazione tra economia e ambiente e tra società e ambiente.
Specifica attenzione merita infine il comma 4, che stabilisce che il comitato “promuove anche l’adozione, da parte degli enti locali, di sistemi di contabilità ambientale e la predisposizione, da parte dei medesimi enti, di appositi bilanci ambientali, finalizzati al monitoraggio e alla rendicontazione dell’attuazione, dell’efficacia e dell’efficienza delle politiche e delle azioni svolte dall’ente per la tutela dell’ambiente, nonché dello stato dell’ambiente e del capitale naturale. In particolare il Comitato definisce uno schema di riferimento sulla base delle sperimentazioni già effettuate dagli enti locali in tale ambito, anche avvalendosi di cofinanziamenti europei”.
Le sperimentazioni in questione hanno il grande limite di affiancare ad una contabilità monetaria relativa agli Enti territoriali (quindi attinente al “programma”), una contabilità fisica relativa al territorio governato (quindi attinente al “contesto”). Se non si stabilisce un modello di relazione corretto tra queste parti, se le valutazioni degli effetti dei programmi sul contesto non sono fatte sulla base di metodologie condivise, si possono creare occasioni di polemica e screditamento dello strumento. Anche qui, io sono per un metodo partecipato, per il coinvolgimento di tutti gli interessati nelle valutazioni.
*Aldo Femia risponde alle domande di quest’intervista “a titolo strettamente personale” e “come persona informata dei fatti”, sulla base di quanto da chiunque appurabile attraverso pubblicazioni dell’Istat ma anche altre fonti di informazione – statistica e non – sull’ambiente. Questa intervista non rappresenta dunque in alcun modo un punto di vista dell’Istituto per il quale Femia lavora, né impegna in alcun modo tale Istituto.