Quali sono costi e benefici economici della transizione ecologica italiana, spiegati dal Governo

Servono investimenti aggiuntivi per 16 mld di euro se vogliamo ridurre le emissioni a -55% nel 2030 (rispetto al 1990) e arrivare a zero netto nel 2050. Un’operazione che conviene all’ambiente quanto al portafogli

[8 Febbraio 2022]

È stato presentato al ministero delle Infrastrutture e della mobilità sostenibili (Mims) il rapporto su “Cambiamenti climatici, infrastrutture e mobilità”, elaborato dalla Commissione di studio istituita un anno fa dallo stesso dicastero e guidata dall’economista ambientale Carlo Carraro, che – tra le altre cose – ha avuto il grande merito di fare il punto su costi e benefici socio-economici della transizione ecologica italiana.

Sotto questo profilo, il rapporto parte dall’unico dato (più o meno) certo: la necessità di investimenti per attuare davvero la transizione. La Commissione europea stima che per raggiungere gli obiettivi stabiliti dal Green deal gli investimenti energetici debbano attestarsi sul 2.5-3% del Pil rispetto agli attuali 1.75% – con un investimento addizionale di 0.75-1.25% del Pil –, mentre l’International energy agency e la Bce arrivano a stimare investimenti addizionali pari a circa il 2% del Pil; nel contesto italiano, il rapporto «indica valori degli investimenti necessari alla transizione ecologica di circa lo 0,8% del Pil», molto simili a quelli della Commissione Ue: «Assumendo un valore del Pil italiano medio nel decennio di circa 2000 miliardi di euro, si tratterebbe di investimenti pari a circa 16 miliardi all’anno», da aggiungere a quelli necessari per l’adattamento di un clima che è già cambiato e continuerà a farlo.

Si tratta di investimenti sia pubblici, sia privati (sulla base di quanto avvenuto negli ultimi 5 anni in Europa, da dividere circa in parti uguali) da stimolare con adeguate politiche di incentivazione.

Per quanto riguarda invece i costi macroeconomici della transizione ecologica, le stime variano significativamente, con  gli impatti macroeconomici del “Fit for 55” che «variano da -0,39 a +0,5% del Pil europeo», anche se «in generale, comunque, il supporto a investimenti infrastrutturali verdi è previsto avere conseguenze positive sulla crescita economica».

Anche il numero globale di posti di lavoro nel settore energetico è previsto aumentare: «Stime per l’Italia per il “Fit for 55” prevedono un aumento del 2,5%-3% all’anno, concentrato nei settori edilizio, dei trasporti e dell’energia rinnovabile, dove i moltiplicatori di forza lavoro sono previsti essere maggiori».

Il rapporto spiega dunque che «gli impatti macroeconomici delle politiche di decarbonizzazione non avranno effetti particolarmente negativi per l’economia, e se ben diretti potrebbero anche portare a crescita economica. Applicando i moltiplicatori del Pniec all’obiettivo di ridurre le emissioni del 55% al 2030, Està (2021) stima una crescita del Pil al 2030 dello 0,5%», a patto però che l’accesso ai finanziamenti resti a basso costo (2% di tasso di interesse) e che l’Italia non si limiti ad importare dall’estero le tecnologie necessarie alla transizione ecologica, come di fatto però sta in larga parte accadendo.

L’analisi evidenzia infatti l’importanza che «l’Italia aumenti la percentuale di produzione interna dei beni e servizi necessari per decarbonizzare il proprio sistema energetico», e affinché questo avvenga «importanti investimenti in R&D sono necessari per rendere le imprese italiane competitive».

Lo stallo attuale su questo fronte non appare per niente un rischio calcolato, dato che si stima che in Italia circa il 35% delle imprese sia potenzialmente soggetta a rischi legati alla transizione, e sappiamo anche che un terzo del 10% delle banche con portafoglio più inquinante sono localizzate in Italia.

Nonostante questi distinguo, allargando il quadro d’osservazione ai danni evitati e ai benefici indiretti, l’economicità della transizione ecologica è evidente.

«La transizione ecologica (il passaggio da uno scenario RCP 4.5 ad uno scenario RCP 2.6) farebbe guadagnare all’Italia, utilizzando una valutazione conservativa, dallo 0,5% all’2,3% del Pil già entro il 2050, in termini di danni evitati (considerando sia gli impatti indiretti che quelli indiretti).

A questi benefici diretti di una strategia di mitigazione vanno aggiunti i benefici indiretti, rilevanti soprattutto nel breve termine. I soli benefici in termini di minori impatti sulla salute (da condividere tuttavia con le misure di adattamento) potrebbero arrivare al 2% del Pil.

A questi benefici, vanno aggiunti quelli macroeconomici, in termini di maggiore crescita e occupazione indotti dagli investimenti per la transizione ecologica. Su questo le stime non sono convergenti. La maggior parte stima un lieve beneficio od un lieve costo. Nel Pnrr è previsto ad esempio un effetto positivo sul Pil, così come in studi recenti della Commissione europea e del Fondo monetario internazionale», spiega il rapporto governativo.

Tuttavia questa conclusione dipende da alcuni fattori importanti, la cui efficacia è decisiva:

  • Il disegno delle politiche (l’uso dei proventi dalla vendita dei permessi nell’Ets, gli investimenti pubblici che accompagnano la transizione, le politiche, soprattutto di formazione, a sostegno dell’occupazione nei settori più colpiti, ecc.).
  • La rapidità con cui il progresso tecnologico mette a disposizione nuove soluzioni a basso costo.
  • La possibilità di accedere a finanziamenti a tassi contenuti.
  • L’implementazione di politiche di mitigazione in tutti i maggiori paesi del pianeta sia, come detto sopra, per evitare effettivamente i danni da cambiamento climatico, sia per evitare penalizzazioni competitive dei paesi più avanzati nel campo della lotta ai cambiamenti climatici, sia per offrire soluzioni di mitigazione low cost ai paesi più sviluppati.