Servono istituzioni di regolamentazione super partes che isolino i decisori politici dalle pressioni di elettori e lobbysti
Corsa all’energia rinnovabile: perché alcuni Paesi vanno veloci e altri lenti (VIDEO)
Il sistema elettorale maggioritario rallenta le energie rinnovabili, quello proporzionale le velocizza
[14 Ottobre 2022]
Dopo l’invasione russa dell’Ucraina nella primavera del 2022, i prezzi del petrolio e del gas – già in crescita dopo la prima fase della pandemia – sono saliti alle stelle, creando una crisi energetica globale simile alla crisi petrolifera degli anni ’70. Mentre alcuni Paesi hanno utilizzato lo shock dei prezzi per accelerare la transizione verso fonti di energia più pulite, tra cui eolico, solare e geotermico, altri (come l’Italia) hanno ampliato la produzione e l’acquisto di combustibili fossili.
Lo studio “Why nations lead or lag in energy transitions”, pubblicato recentemente su Science da un team internazionale di ricercatori guidato da Jonas Meckling dell’Università della California-Berkeley, analizza le politiche che influenzano alcuni Paesi ad adottare fonti di energia più pulite mentre altri resistono al cambiamento, rivelando cosa impedisce a molti governi di ridurre le emissioni di gas serra.
Il principale autore dello studio, Phillip Lipscy della School of global affairs and public policy dell’Università di Toronto e della Graduate schools for law and politics dell’Università di Tokyo, spiega che «le prescrizioni politiche sui cambiamenti climatici e le transizioni energetiche tendono spesso a presupporre che i Paesi siano molto simili o comparabili. La cosa che spicca davvero dal nostro lavoro è che la stessa politica che funziona in un contesto nazionale potrebbe non funzionare in un altro».
I coautori dello studio includono Jared Finnegan dell’University College London e Florence Metz dell’Università di Twente: un team che ha collaborato con istituzioni di tutto il mondo per esaminare come i diversi Paesi hanno reagito all’attuale crisi energetica e alla crisi petrolifera degli anni ’70, illustrando «come la struttura delle istituzioni politiche possa sostenere il passaggio all’energia pulita o costituire un ostacolo».
L’analisi ha infatti rilevato che «i Paesi che hanno avuto più successo nell’introdurre tecnologie per l’energia pulita avevano istituzioni politiche che hanno contribuito ad attutire parte della resistenza dei consumatori e delle aziende agli elevati costi a breve termine, isolando i responsabili politici dall’opposizione politica o compensando i consumatori e le imprese per i costi aggiuntivi associati all’adozione di nuove tecnologie».
Meckling conferma: «Le transizioni energetiche pulite spesso devono affrontare l’opposizione politica perché impongono costi alle imprese e alle famiglie», mentre i costi dovuti alle esternalità negative legate all’uso dei combustibili fossili non sono quasi mai direttamente visibili. «Ma gli strumenti che i Paesi hanno per gestire quei costi e il contraccolpo politico sono diversi».
Lo studio porta come esempio molti paesi dell’Europa continentale e settentrionale che hanno istituzioni che consentono ai responsabili politici di non subire le pressioni di parte dell’elettorato e dei lobbisti, o che hanno attuato misure di compensazione nei collegi elettorali colpiti dalla transizione. Quindi, dice lo studio, «molti di questi Paesi hanno avuto più successo nell’assorbire i costi associati alla transizione verso un sistema di energia pulita, come investire in una maggiore capacità eolica o nell’ammodernamento delle reti di trasmissione».
Intanto, i Paesi privi di queste istituzioni, come gli Stati Uniti, l’Australia e il Canada, seguono spesso le transizioni guidate dal mercato, aspettando che il prezzo delle nuove tecnologie scenda prima di adottarle.
«Isolamento significa che i responsabili politici sono istituzionalmente isolati dal contraccolpo di elettori e imprese – dice Meckling – L’isolamento è possibile quando le burocrazie con funzionari pubblici che non possono essere espulsi dal loro incarico hanno un ruolo decisivo nella definizione della politica energetica. Anche Paesi con una rappresentanza proporzionale piuttosto che un sistema politico maggioritario dove “il vincitore prende tutto” hanno una maggiore protezione dal contraccolpo elettorale».
Lipscy spiega ancora: «Descriviamo questo come un percorso senza il coinvolgimento del governo; in un certo senso è un fallimento dell’intervento governativo per accelerare la transizione. E il governo consente essenzialmente ai mercati di determinare quale tipo di transizione energetica si verifica».
Il Giappone dell’energia nucleare è un esempio di Paese che ha subito cambiamenti istituzionali che lo hanno reso meno efficace al riguardo: «Mentre i politici giapponesi hanno risposto efficacemente agli shock petroliferi degli anni ’70 – evidenziano i ricercatori – il Paese ha faticato ad accelerare la sua transizione energetica in risposta al cambiamento climatico e alla guerra in Ucraina».
Lipscy attribuisce questa lentezza ai cambiamenti elettorali e amministrativi attuati in Giappone a partire dagli anni ’90. Sia la Francia (che ha un sistema elettorale misto a doppio turno) che il Giappone hanno utilizzato una strategia di isolamento per rispondere alla crisi petrolifera degli anni ’70. La Francia ha affrontato l’attuale crisi energetica, accelerata dall’invasione russa dell’Ucraina, in modo simile, ma in Giappone, dove le strutture politiche da allora sono diventate più maggioritarie, si è invece concentrato su politiche per stabilizzare le forniture e i mercati dei combustibili fossili.
Meckling conferma quanto ipotizzato da Lipscy: «La seconda strategia politica, la compensazione, suggerisce che i responsabili politici compensino le aziende e le famiglie per i costi aggiuntivi associati alla politica dell’energia pulita attraverso, ad esempio, sussidi. I sistemi politici con forti legami tra imprese e governo e quelli con generosi ammortizzatori sociali si prestano a compensazioni».
Quindi se i sistemi politico/elettorali differiscono, cosa si può fare? I ricercatori hanno identificato tre cose da fare per facilitare la transizione energetica a seconda del sistema politico di un Paese.
Primo, se l’isolamento e/o la compensazione sono fattibili, i responsabili politici devono fare affidamento su queste leve. Secondo, nei Paesi in cui è probabile una transizione basata sul mercato, la cosa migliore che i governi possono fare è togliersi di mezzo dal mercato, ad esempio allentando le autorizzazioni e altri ostacoli normativi all’implementazione della tecnologia dell’energia rinnovabile. Terzo, i responsabili politici dei Paesi in cui l’isolamento o la compensazione non sono particolarmente fattibili possono ancora pensare ad altre politiche meno importanti per facilitare la transizione energetica, come investire nella ricerca e nello sviluppo dell’energia pulita. Anche le giurisdizioni subnazionali come Stati e province potrebbero essere in grado di promuovere la transizione energetica in questi Paesi.
Gli autori dello studio citano il California air resources board (Carb), un’agenzia relativamente autonoma che è stata incaricata di implementare molti degli obiettivi climatici della California, dato che «fornisce un cuscinetto per i responsabili politici, dato che l’agenzia può prendersi la colpa di politiche impopolari. Grazie in parte al Carb, la California è spesso considerata un leader nella limitazione delle emissioni di gas serra, nonostante sia uno Stato all’interno degli Stati Uniti».
Molti paesi dell’Europa settentrionale perseguono la strategia di compensazione: la Germania ha utilizzato questo approccio per superare la crisi petrolifera degli anni ’70 e sta facendo lo stesso in risposta all’attuale crisi energetica legata alla guerra in Ucraina, sovvenzionando le tecnologie per l’energia pulita e compensando i produttori per l’abbandono dei combustibili fossili.
C’è un terzo gruppo di Paesi nei quali il sistema politico non è adatto né all’isolamento né alla compensazione: lo studio evidenzia che «Paesi come Australia, Canada, Regno Unito e Stati Uniti mancano di istituzioni solide per assorbire l’opposizione politica alle costose politiche energetiche e tendono ad avere transizioni verso l’ energia verde più lente». Meckling evidenzia che «i politici si ritirano e lasciano la transizione ai mercati. Così, un Paese passerà a un nuovo futuro energetico solo quando i prezzi delle nuove tecnologie diventeranno competitivi». E spesso pure in ritardo, dato che già oggi le rinnovabili sono in molti casi più economiche rispetto ai combustibili fossili.
Ma una volta che il mercato si muove, la transizione energetica può essere rapida e può superare le divisioni politiche: lo testimonia la continua crescita dell’energia eolica e solare negli Usa anche durante l’amministrazione Trump, negazionista climatici e contrario all’energia verde.
Meckling fa notare che «l’analisi attuale si concentra principalmente sulle democrazie industrializzate avanzate. In linea di principio, è probabile che l’isolamento e la compensazione svolgano un ruolo anche in contesti politici autoritari e nei Paesi in via di sviluppo. Ma il contesto politico è diverso, quindi dobbiamo capire se e come funzionano l’isolamento e la compensazione in contesti diversi».
Lipscy conclude: «I responsabili politici possono ancora portare avanti la transizione energetica sostenendo la ricerca e lo sviluppo energetico e rimuovendo gli ostacoli alle tecnologie pulite, che sono diventate sempre più competitive in termini di costi rispetto alle fonti energetiche tradizionali. E’ impossibile pensare a questioni come il cambiamento climatico e le transizioni energetiche senza tenere conto della politica. Spero che questo studio serva un meccanismo per collegare alcuni dei grandi lavori che escono dal campo delle scienze politiche con gli studiosi interessati ai cambiamenti climatici che lavorano in altri campi».